Giovanni Pontano umanista e politico
Non erano passati due mesi dalla caduta del potere pontificio nella nostra regione quando, il 10 novembre 1860, il commissario governativo dell’Umbria, Gioacchino Napoleone Piepoli, emanò il decreto con cui si istituiva qui a Spoleto il Regio Liceo, il primo e, fin quasi al 1900, unico Liceo statale della provincia umbra: la sua sede fu inizialmente nell’ex-convento dei Filippini, dove ora è il Tribunale.
Secondo antiche consuetudini, seguite anche ai giorni nostri, si decise di intitolarlo al personaggio più illustre della letteratura classica nato nella regione: Giovanni Pontano.
Non credo che siano sorte incertezze o siano state presentate alternative relativamente a questa scelta tanto incomparabilmente grandi erano il valore e la fama dell’umanista di Cerreto.
Di lui Angelo Poliziano, il grande poeta della corte di Lorenzo il Magnifico, diceva:” Chi è mai, o Pontano, così straniero e barbaro che non ti conosca per la fama dell’ingegno, delle lettere, della fortuna”, cioè del successo.
Il Pontano fu un punto di riferimento essenziale per la cultura del Rinascimento soprattutto come poeta, oltre che come studioso di filosofia e di astrologia, per la sua vasta e varia produzione di carmi latini e per il suo stile perfetto, inarrivabile.
Ma l’importanza storica di Giovanni Pontano è altrettanto grande per la sua attività di politico, valido cancelliere reale e finissimo diplomatico, apprezzato per il suo senso dello Stato e le sue eccellenti qualità di governante: concretezza, determinazione e acuto senso dei tempi e delle situazioni.
E di questo aspetto della sua personalità noi oggi ci occuperemo soprattutto, ripercorrendo gli avvenimenti della sua attività di cancelliere dei Re aragonesi di Napoli seguendo la traccia documentale dello studioso ottocentesco Carlo Maria Tallarigo e di don Ansano Fabbi.
Le indispensabili annotazioni sulla sua opera letteraria, sul suo stile e sull’ispirazione dei suoi carmi le ho tratte dagli studi di un validissimo filologo spoletino, il prof. Luigi Pompilj, che ha dedicato molte pubblicazioni al nostro umanista di Cerreto.
E, a proposito di Cerreto, diciamo subito che il Pontano, pur legato alle sue origini umbre che saltavano fuori tutte le volte che lasciava il latino per il volgare, non ha mai citato in tutti i suoi numerosi cenni autobiografici il nome del suo luogo di nascita (perché era il luogo in cui era stato ucciso suo padre ed erano state compiute numerose violenze contro la sua famiglia) ma lo ha nascosto sotto la poetica perifrasi di un distico elegiaco:
“Vigia quem gelidis placidus circumfluit undis
Et Nar sulphureis fontibus usque calens”
Cioé il paese a cui scorrono intorno il placido Vigi con le sue gelide onde e il Nera ancora caldo delle sue fonti sulfuree.
Nel corso del 1861 le istituzioni dello Stato unitario compilarono l’elenco dei Comuni d’Italia e per distinguere quelli portanti nomi uguali aggiunsero alla loro denominazione una specificazione di carattere storico o geografico;
siccome di comuni col nome “Cerreto” ce ne era una decina il nostro fu chiamato “Cerreto di Spoleto”, come analogamente avvenne per Monteleone.
Questa scelta originava dal fatto che per tanti secoli, dal 1221 al 1600 inoltrato, i castellani di Cerreto erano dovuti scendere il giorno dell’Assunta a Spoleto in pompa magna e con ricchi doni, grossi ceri ed arazzi (il Pallio), per rinnovare l’impegno di sottomissione e fedeltà al grande (e prepotente) comune spoletino e addirittura dodici famiglie di Cerreto erano state obbligate a venire ad abitare stabilmente a Spoleto, quasi in veste di ostaggi, in quella che si chiamò via Cerretana (ora via Pierleone).
Il Comune di Spoleto inviava annualmente un suo Podestà a Cerreto a vigilare, sospettoso e protervo, sulla vita pubblica di questa sua forzosa dipendenza.
In conclusione, non è improprio affermare che in quei tempi chi era di Cerreto era, in qualche modo, anche spoletino e quindi noi possiamo, con un po’ di approssimazione e parecchia presunzione, considerare Giovanni Pontano nostro concittadino.
Egli nacque secondo la datazione più probabile il 7 maggio 1426, forse a Ponte, da Giacomo (Jacopo) e da Cristina (o Cristiana) di Leonarda, membri della piccola nobiltà locale, benestanti impegnati nella vita pubblica.
Ma non poteva aspettarsi, il piccolo Giovanni, molti ammaestramenti in casa sua perché, come testimonia egli stesso, “pater avusque ignorantissimi fuere et mater satis habuit lanificio ac telae”, il padre e il nonno erano molto ignoranti e la madre si accontentava di filare la lana o di tessere.
A soli sette anni Giovanni rimase orfano del padre ucciso in una delle frequenti faide cittadine legate alle guerre tra Norcia e Spoleto per il dominio dei castelli della Valnerina.
La madre si rifugiò, insieme ai suoi quattro figli a Perugia dove lo zio Tommaso, cancelliere del Comune perugino, li accolse in casa sua.
A Perugia, indirizzato dallo zio e amorevolmente incoraggiato dalla madre, Giovanni seguì degli studi regolari sotto la guida di tre successivi precettori ed infine di Guido Vannucci detto il Trasimeno, latinista valido e maestro umano e capace, come lo ricorda l’allievo.
Ma nel clima ribollente della Perugia di metà quattrocento il giovane Pontano si mescolò a compagnie un po’ troppo vivaci che lo influenzarono soprattutto con il loro erotismo e le frequentazioni femminili un po’ troppo facili.
Giovanni ne ritrasse un edonismo abitudinario e lascivo che lo accompagnò per tutta la vita e che fu la fonte di ispirazione principale delle sue poesie giovanili, ma anche di quelle della maturità.
Quando, a 21 anni decise di tentare la fortuna entrando in una corte importante presentò come ”prova d’autore” proprio queste poesie che egli definisce “nugae et versicula”, sciocchezzuole e versi da poco.
In quel 1447 in Toscana c’era il re di Napoli, Alfonso d’Aragona, a guerreggiare contro i Fiorentini e quindi il nostro Giovanni, da Perugia, non dovette fare molta strada per recarsi al campo di quel Re e presentarsi ai suoi collaboratori.
Ebbe la fortuna di essere accolto e ben valutato da Antonio Beccadelli detto il Panormita, ministro del Regno e letterato eminente, che apprezzò la cultura latina, la presenza fisica e i modi modesti e cortesi di quel giovane.
Pontano si descrive come un ragazzo alto e robusto, con lineamenti regolari ed occhi azzurri; ma, non essendocene rimasta una prova iconografica, possiamo solo dire che la sua descrizione contrasta un po’ con le sue immagini da adulto o da vecchio.
Quando la corte aragonese, delusa dai modesti risultati della sua campagna di guerra in Toscana, tornò a Napoli Pontano ormai faceva parte di essa.
Nella città partenopea, mentre svolgeva modeste funzioni al servizio del Panormita, continuò gli studi; in particolare approfondì le sue conoscenze di greco con Giorgio di Trebisonda, ellenista famoso.
In quei frangenti accadde che il Panormita, inviato per un’ambasceria a Venezia, recasse con sé il giovane Pontano che così fu introdotto negli affari di stato.
Tornati a Napoli, il Beccadelli lo accolse nel suo “Porticus antoniana”, forma iniziale di quella che poi divenne l’Accademia Pontaniana (il nostro poeta per l’occasione modificò il suo nome in Gioviano): il Panormita aveva tanta stima del Pontano che quando qualcuno lo interpellava per spiegazioni o giudizi gli rispondeva “Ite ad Jovianum”, andate da Gioviano.
Introdotto nella regia Cancelleria, anche durante le ore di lavoro, Pontano scriveva ogni giorno prose e versi latini.
Nel 1459 ci fu l’occasione della guerra di Ferrante d’Aragona, appena subentrato al padre Alfonso, contro il pretendente Giovanni d’Angiò, guerra in cui il Pontano, nominato “Consigliere di guerra”, si rivelò capace di organizzare le armate reali come un vero Capo di stato maggiore e fu decisivo nella battaglia di Troia che determinò l’esito finale della guerra con la vittoria degli Aragonesi.
Certo, questo ci è narrato da lui stesso nel “De bello neapolitano” e quindi qualche dubbio sulla veridicità del racconto ci può stare.
Comunque la stima del re crebbe e al Pontano fu affidato il compito di precettore dei giovani eredi al trono e poi quello di segretario alle finanze del reame.
Intanto egli aveva ripreso a poetare nel suo bel latino creando quegli Hendecasyllabis seu Baiarum libri che rappresentano una delle sue maggior glorie poetiche.
Certo quando si parla di poesia in latino, per gli umanisti, è sempre poesia di imitazione: Catullo, Tibullo, Orazio erano i modelli del Pontano; ma poi egli ci metteva la sua personale fonte di ispirazione; la materia che egli andava trasfigurando era la vita quotidiana, la natura, i bei paesaggi di Napoli, i fenomeni celesti e le relazioni umane, particolarmente quelle col gentil sesso.
La sua poesia era narrativa, descrittiva: per lo più era l’espressione dell’esperienza della vita, dei fatti vissuti; nasceva più da una emozione estetica che da un sentimento intimo.
Nelle sue opere poetiche, pagano e voluttuoso cantore della natura e del piacere, inesauribile creatore di figure mitiche dispiegò il suo tanto ammirato stile vigoroso, sicuro, privo di languori o di sentimentalismo.
Poi il latino con cui si esprimeva era agile, duttile, moderno, personalissimo; vinceva ogni confronto possibile coi i letterati del suo tempo e forse di tutti i tempi.
Così tra il 1448 e il 1500, in mezzo ai tanti incarichi di governo, agli impegni diplomatici ed anche a guerre e ribellioni baronali, Pontano scrisse più di venti opere poetiche, oltre quelle filosofiche, scientifiche e politiche, anticipando temi che poi saranno propri del Poliziano, di Machiavelli, del suo discepolo Sannazzaro e che influenzeranno la letteratura dell’Umanesimo nel passaggio al pieno Rinascimento.
In quegli anni trasformò la informale riunione di amici letterati del Panormita in una vera e propria accademia che da lui prese il nome: l’Accademia Pontaniana è la più antica istituzione letteraria ancora esistente in tutta Europa e influenza pure oggi il clima culturale partenopeo in maniera fondamentale.
In campo politico, il suo temperamento brusco e polemico e l’atteggiamento senza riguardi risaltano pienamente nell’epistolario in volgare, per lo più diretto ai suoi re aragonesi, e in cui si sente l’eco del nostro dialetto quattrocentesco.
Mentre egli è in missione diplomatica presso il Papa e il re Ferrante, restato a Napoli, coi suoi atti violenti gli scombina tutti i tentativi di accordo egli gli scrive:
“In nome del vostro diavolo, habbiate l’animo grande. Un pover’uomo che è Ioanne Pontano non ha paura dell’Europa e voi havete paura di non retrahere dall’accordo del papa più assai di quello che mo non vedete né pensate”.
Ferrante fece finta di niente ma contemporaneamente elevò il Pontano a ministro delle finanze del Regno: questo fatto suscitò l’invidia dell’erede al trono Alfonso di Calabria, che cominciò a maltrattare il nostro protagonista.
Ma questi, mostrando carattere indipendente e sicurezza di sé, si rivolse a quattr’occhi al re parlando schiettamente:” A me non incute timore né l’ingiurioso animo di vostro figlio verso di me, né l’indulgenza vostra verso di lui giacché ho patrocinatore valentissimo che mi difenderà innocente dinanzi qualsiasi tribunale.”
E quando Ferrante gli chiese ”E quale?” egli rispose: ”La povertà!” con il che, da buon cerretano, oltre a proclamarsi onesto, avanzò implicitamente la richiesta di un aumento di retribuzione.
In effetti di sé proclamava: “egere nolo, opulentus esse recuso”, “non amo spendere, rinuncio ad essere ricco”.
La sua lucida consapevolezza e la sicurezza datagli dalle sue qualità intellettuali, oltre che col suo re, gli servivano con i suoi contraddittori nelle trattative diplomatiche: franco e diretto nell’esporre le sue ragioni, era anche determinato a non cedere mai agli argomenti altrui e a far valere i suoi anche con atti concreti.
Ne sapeva qualcosa un ambasciatore del duca di Milano, Vercellino Visconti, che, da lui sospettato di aver trafugato i fogli originali dell’accordo tra loro stabilito, fu trattenuto dal Pontano nel proprio alloggio e trattato piuttosto energicamente finché i documenti in questione non ricomparvero.
Le asperità del suo carattere era note in tutte le corti italiane.
Quando il Bentivoglio, signore di Bologna, cambiò idea e ricusò di schierarsi cogli Aragonesi contro Carlo VIII l’umanista non nascose la propria indignazione.
E gli ambasciatori fiorentini notarono: “Di che il Pontano riniega Dio per tanta mutazione”.
La sua franchezza e durezza verbale erano, in quell’ambiente diplomatico così felpato e formale, oggetto di tanta meraviglia e di così grave turbamento per i diplomatici avversi che, come ne scrivono ancora gli ambasciatori fiorentini Francesco Cappello e Baccio Ugolini al loro governo, quando egli perse la pazienza con loro “Il signor Pontano, come è suo costume, alzò le parole, increpando la tardità e freddezza dei signori Fiorentini”, cioè insultandoli.
Il poeta degli impulsi d’amore era allo stesso tempo il diplomatico meno trattabile del suo tempo.
Tornando alla sua vita privata, avvenne che a trentacinque anni il Pontano, lasciando almeno momentaneamente da parte le Fannie, le Focille, le Deianille e le altre belle dame napoletane oggetto delle sue composizioni lascive ed erotiche, si sposò, si fece una famiglia.
Prese in moglie la diciassettenne Adriana Sassone, di nobile e ricca progenie, che gli darà quattro figli, un maschio, Lucio Francesco, e tre femmine.
Questa esperienza domestica fu resa poeticamente nel suo capolavoro, tre libri di elegie di carattere familiare dedicate alla moglie e ai figli: il “De amore coniugali”, opera di finissima arte e di sentita ispirazione di cui fanno parte anche le famose “Neniae”, le ninne-nanne che scrisse per il figlio.
“Somne veni, tibi Luciolus blanditur ocellis……”
Sonno, vieni, il piccolo Lucio ti invita coi suoi occhietti….
Nei tempi più recenti si è apprezzata in pieno questa raccolta di canti familiari in cui si assiste “allo stupefacente risorgere di una lingua antica con la duttilità, il colore e la indolente vocalità del dialetto” (parole del prof. Pompilj).
Il fatto di avere una famiglia indusse il Pontano ad acquistare una casa in via dei Tribunali e a costruirsi poi una villa ad Antignano, che allora era poco fuori dalle mura di Napoli.
Si vede che re Ferrante lo stipendio glielo aveva aumentato….
In seguito fece erigere di fronte all’abitazione una cappella votiva dedicata alla Madonna, prevista come luogo di sepoltura suo e dei familiari e che resta uno dei più bei monumenti quattrocenteschi di Napoli.
Fu questa l’occasione per la stesura del poema “Tumuli” in cui raccolse le memorie delle persone care perdute e a queste, nel seguito, aggiunse quelle dell’amatissimo figlio Lucio Francesco morto a soli ventisei anni e della moglie morta a quarantasette anni.
Per tornare all’attività di Giovanni Pontano fuori dagli uffici pubblici, la sua fama di umanista in quei tempi fu soprattutto legata alla poetica latina e, in particolare, alle poesie d’amore, ma egli fu molto ammirato anche come filosofo e scienziato.
Il suo credo filosofico a metà tra epicureismo e stoicismo fu soprattutto di indole pratica, di argomento morale, come si ritrova nel dialogo “Charon”, nel “De oboedentia”, nel “De fortuna” e infine nell’”Aegidius” scritto negli ultimi anni di vita (nel 1501), quest’ultimo influenzato dal predicatore agostiniano Egidio da Viterbo che lo riavvicinò alla religiosità tradizionale.
Infatti il Pontano maturò, insieme ad una pratica religiosa a cui era stato educato nell’infanzia, una forte vena anticlericale, una diffidenza nei confronti del Clero dovuta anche alla sua attività diplomatica a contatto con tanti ecclesiastici, compresi i Papi.
Espresse questo suo atteggiamento polemico nel “Charon”, coraggiosa denuncia delle superstizioni popolari e della corruzione degli ecclesiastici.
Ma è soprattutto la sua visione materialistica della vita che gli fa dire: “Et semo homo secolare, non spirituale”.
Per quanto riguarda la scienza ci riferiamo fondamentalmente all’Astrologia, alla dottrina sull’influenza degli astri sul destino umano, cosa che lo portò ad una disputa umanistica con Pico della Mirandola, sostenitore della dignità dell’uomo e del libero arbitrio.
Sui temi astrologici il Pontano scrisse nel 1476 il poema latino “Urania”, una delle sue opere più note, e i “Meteorum libri”.
Nel 1466 c’era stato un periodo di distacco dall’ambiente di Napoli perché la comunità di Perugia, forse anche per la memoria dello zio Tommaso, offrì a Pontano la segreteria della Repubblica e la Cattedra di Retorica all’Università.
Pontano accettò e tornò in Umbria per due anni: approfittò della vicinanza per andare a Cerreto a tentare il recupero dell’eredità familiare; se ne dovette scappare a causa di sopraffazioni e violenze.
I rancori, mescolati agli interessi, erano difficili da spegnere.
Tornato nel 1468 a Napoli si occupò in prima persona delle trattative con i papi Sisto IV e Innocenzo VIII e, dopo averle portate a buon fine, venne nominato primo segretario di stato, carica importante e significativa della fiducia che re Ferrante nutriva circa la fedeltà e la capacità del nostro.
Gli incarichi prevalenti furono quelli diplomatici in cui la sua logica stringente e il carattere scaltro gli fecero ottenere numerosi successi e l’ammirazione dei suoi contradditori, compreso papa Innocenzo VIII che lo premiò incoronandolo con il Lauro poetico.
Il suo successo politico e diplomatico più grande fu, nel 1484, la stipula della Pace di Bagnolo, che concluse la Guerra per la successione di Ferrara, e in cui egli mise d’accordo Venezia, Ducato di Milano e Papato col Regno di Napoli e coi Fiorentini (erano i tempi di Lorenzo il Magnifico): egli ne fu il protagonista assoluto e rese il regno Aragonese di Napoli il fulcro della lega tra gli stati italiani in quel breve periodo tra il 1484 e il 1494 che precedette la discesa di Carlo VIII in Italia.
L’anno successivo accompagnò il duca di Calabria, l’erede al trono Alfonso, nell’impresa di Otranto di cui fu operata la riconquista dopo l’occupazione dei Turchi.
Questo lo rese talmente indispensabile agli occhi di re Ferrante che quando questi fece arrestare e poi impiccare il primo ministro Petrucci al suo posto di Cancelliere del Regno mise proprio il nostro Pontano.
Siamo nel 1487 e fino al 1495 Giovanni Pontano mantenne la carica ininterrottamente, se non contiamo tutte le volte che egli dette le dimissioni per i contrasti col re: ma, guarda caso, era sempre quest’ultimo a cedere.
Il Pontano dette le dimissioni tre volte e tre volte il re lo convinse a ritirarle.
Sugli atteggiamenti morali del cerretano come uomo di governo non c’è molto da eccepire, specialmente considerando i tempi.
Quando re Ferrante sterminò brutalmente i baroni ribelli, egli stava a Roma a trattare col Papa e non era ancora primo ministro: nei patti che stipulò con Innocenzo VIII era prevista l’amnistia per quei riottosi aristocratici, ma re Ferrante non ne tenne minimamente conto e li eliminò quasi tutti.
Se qualcosa è stato addebitato al Pontano, sul piano del buon gusto più che su quello morale, questo è il discorso tenuto nel Duomo di Napoli in occasione dell’intronizzazione del re di Francia Carlo VIII che, nel 1494, aveva invaso il regno e scacciato gli Aragonesi.
Francesco Guicciardini gli rimprovera il tono encomiastico nei confronti del nuovo sovrano, ma non la sostanza, mentre Benedetto Croce concorda con la diffusa opinione che egli, da massima autorità rimasta del precedente regime e in segreto accordo col suo re fuggiasco, abbia soprattutto voluto ben disporre il re di Francia nei confronti del popolo napoletano.
Il fatto è che il giovane re Alfonso II, nonostante gli incoraggiamenti del Pontano a resistere, si era rifugiato in Sicilia lasciando il regno indifeso e il suo massimo collaboratore, cioè il Pontano, alle prese con Carlo VIII e col popolo napoletano rapidamente passato dalla parte dell’invasore.
Secondo l’interpretazione satirica del Guicciardini, a Napoli vigeva il detto “Franza o Spagna purché se magna”.
Ritiratosi dopo poco tempo Carlo VIII la dinastia aragonese tornò a Napoli con Ferdinando II, zio di Alfonso.
Il Pontano venne sostituito al governo dello Stato da Benedetto Gareth, il Cariteo, suo discepolo nell’Accademia Pontaniana, e al nostro protagonista, nonostante l’età avanzata, fu data, per la evidente convenienza di utilizzarne ancora le capacità, la carica di Ufficiale della Regia Camera e la presidenza del Tribunale di Nido.
I suoi seguaci dell’Accademia e tra questi Jacopo Sannazzaro, famoso autore dell’Arcadia, gli restarono amicissimi e non gli fecero pesare l’allontanamento dal vertice del potere.
Ma venne il tempo in cui il Pontano, più che settantenne, fu preso soprattutto dai problemi familiari: la morte del figlio Francesco e quella della seconda moglie Stella lo lasciarono solo con una piccola nipote, Tranquilla, nel bel mezzo della nuova invasione franco-spagnola di Luigi XII e di Ferdinando il Cattolico che si spartirono il Regno di Napoli, tolto definitivamente agli Aragonesi.
Giovanni Pontano si spense a settantasette anni nel 1503 e fu sepolto nella cappella da lui costruita “Sibi et suis”.
Il comune di Cerreto si ricordò di lui nel 1536 e gli dedicò, nella vecchia sala consiliare, un bruttissimo affresco di un pittore locale.
Poi di Gioviano Pontano rimase la fama letteraria, l’importanza di massimo cantore della natura, di fondatore di moduli espressivi originali e della nuova figurazione del mondo del tempo dell’Umanesimo: ma sessant’anni dopo la sua morte arrivò la Controriforma e i temi, le espressioni, i caratteri umani e la sensualità della natura del Pontano finirono all’Indice dei libri proibiti.
Passati tre secoli oscuri per la sua fama venne però il tempo della rivincita di Gioviano: il mondo intellettuale della nuova Italia unita gravido di anticlericalesimo rivalutò tutto ciò che la Controriforma aveva oscurato.
Ne è dimostrazione la scelta della dedicazione del nostro Liceo.
E per comprendere il fenomeno vediamo come l’anticlericale e massone Giosué Carducci giudicava l’opera del nostro poeta.
“Il Pontano rende ancora più spiccata immagine che non il Poliziano di ciò che fu il pensiero e l’opera di tutto un secolo: la reazione estetica e dotta contro il misticismo e l’idealismo cristiano dell’età anteriore. I libri suoi degli Amori e degli endecasillabi baiani sono proprio il contrario dei canzonieri di Dante e del Petrarca e Fannia e Focilla il contrapposto di Beatrice e Laura…. Tutto ciò che la fantasia riflessa dell’antichità poteva operare sul sentimento assai superficiale d’un borghese italiano del ‘400 il Pontano lo provò e lo rese. E con quel suo riposato senso di voluttà e di sincero godimento della vita, egli, in latino, è il poeta più moderno e più vero del suo tempo e del suo paese.”
Era, comunque, rimasta nel periodo tra il ‘500 e il nostro secolo come eredità culturale ricchissima per la vita intellettuale di Napoli, l’Accademia Pontaniana, ancora adesso esistente ed attiva, punto di riferimento della cultura partenopea e che ebbe come presidenti personaggi del calibro di Vincenzo Cuoco e Benedetto Croce, il quale ultimo la ricostituì dopo le traversie dell’ultima guerra: i tedeschi in ritirata ne avevano incendiati l’archivio e la biblioteca.
Qui a Spoleto, invece, la moltiplicazione dei nomi che si sono sovrapposti al suo nell’intitolazione del Liceo (Sansi, Leonardi, Volta etc.) hanno contribuito a mettere in ombra il nome del Pontano.
E Cerreto, pur con la lodevole intenzione di onorare questo suo illustre cittadino, non ha saputo rinunciare al risparmio e al cattivo gusto mettendo ai piedi della scalinata che porta all’attuale palazzo comunale una bruttissima statua raffigurante (si fa per dire) il nostro umanista.
E per concludere:
è molto raro nella storia incontrare uomini di cultura che siano anche riusciti in politica: c’è sempre stata incompatibilità tra i due campi di attività.
La grandezza di Giovanni Pontano sta anche nell’aver avuto successo (e che successo!) sia come umanista che come politico.
Egli è stato un grande protagonista dello straordinario fenomeno dell’Umanesimo: ha sfruttato mirabilmente lo strumento comunicativo più adatto al momento, che allora il latino era, oltre che il mezzo espressivo della cultura, la lingua franca degli ambienti di governo e della diplomazia.
Dominarla, come sapeva il Pontano, era una risorsa decisiva: padrone della lingua latina come nessun altro umanista, egli non ebbe nel Rinascimento chi lo eguagliasse come prosatore e forse, in poesia, solo il Poliziano poté stargli alla pari.
Poi il suo carattere pratico e concreto e la naturale adattabilità del provinciale ambizioso gli hanno fatto tenere in mano le redini di un grande stato sfuggendo, fino alla vecchiaia, alle insidie del potere, ché allora i ministri licenziati finivano sulla forca.
E allora cosa espresse dello spirito umbro questa forte personalità di emigrante colto e capace? Direi, prima di tutto, l’accortezza un po’ selvatica del montanaro, poi la franchezza, il parlare diretto e chiaro che può anche sembrare rozzezza, l’atteggiamento schivo e concreto, che mira al risultato e non all’apparenza, e soprattutto il gusto per la vita in tutte le sue espressioni, compresi i più delicati sentimenti familiari; e poi la sua opera poetica sta lì a dimostrare come la passione per il gentil sesso non è per lui corruzione e peccato ma la forma più immediata e completa di coinvolgimento nella bellezza della natura.