Negli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia il Comune di Spoleto rivoluzionò completamene la toponomastica cittadina, sostituendo ai vecchi riferimenti delle strade e delle piazze alle istituzioni religiose ivi presenti non solo le dedicazioni ai personaggi del Risorgimento nazionale ma anche quelle agli spoletini che avessero nei secoli trascorsi raggiunto fama tale da accrescere il prestigio della città.
A capo della commissione incaricata di questo compito era lo storico Achille Sansi che per il tratto di strada tra Largo Fratelli Cairoli (Curva di Picchi) e Piazza Torre dell’Olio, appena realizzato nell’ambito della Traversa Nazionale, scelse la dedica ad un condottiero spoletino vissuto a cavallo tra quattrocento e cinquecento, Saccoccio Cecili.
Ma forse perché il soprannome del personaggio gli sembrava troppo volgare lo fece omettere nelle targhe stradali, che quindi recano solo l’indicazione Via Cecili, come se fosse riferita alla famiglia e non al singolo.
In effetti il soprannome del nostro eroe, in mancanza di elementi documentali in merito, può far pensare ad una militaresca tendenza ad abusare dei combattimenti o degli assedi per fare “sacco” cioè saccheggio e questo nel’ottocento era improponibile.
A parte il fatto che tale epiteto viene attribuito al Cecili sin dall’inizio della sua attività militare, quando ancora non poteva esserselo guadagnato nel modo sopra ipotizzato, un tale comportamento sarebbe stato perfettamente consono al suo tempo e anche la dimostrazione di carattere connessa sarebbe del tutto in linea con lo spirito animoso e violento dei suoi concittadini,aristocratici o plebei che fossero.
Spoleto allora, siamo alla fine del quattrocento , era in guerra con Terni, con Trevi, coi Varano di Camerino, e, schierata con i Guelfi, contro tutti i Ghibellini Umbri e non, compresi i Colonna e i Savelli.
E non bastava perché in città, sempre per la solita strumentale divisione in guelfi e ghibellini, le famiglie più importanti davano luogo a continue faide private che facevano morti e feriti a decine.
La cosa era così nota e risaputa in tutta l’Italia centrale che proprio in quegli anni un uomo politico e letterato senese, Pietro Fortini, scriveva: “Spoleti città nobile, di sangue forte e bizzarre condizioni”, ove “bizzarre” voleva dire” caratterizzate da disordini e violenze”.
La dizione Spoleti, derivata dalla caduta della desinenza “um” di Spoletium nel medioevo, è stata usata nelle nostre campagne fin dopo la seconda guerra mondiale: l’ha usata anche il Manzoni nell’Adelchi.
Ma vediamo per prima cosa di quale Spoleto parlava il Fortini?
Parlando dell’immagine o del temperamento della città, logicamente, intendeva quelli dei suoi abitanti.
Parlava della “comunità” spoletina e delle dimostrazioni di “carattere” che dava a chi veniva a contatto più o meno pacificamente con essa.
Pochi anni dopo lo storico spoletino Severo Minervio scriveva a proposito dei suoi concittadini:”Sono disprezzanti, facili all’ira, altieri, invidi, insofferenti di regola, audaci, robusti e grandemente vendicativi. Sogliono guardare altrui torvi e accigliati…..negli altri luoghi la superbia è propria dei grandi, a Spoleto dei poveri; non possono sopportare i più potenti e si pesano tutti nella stessa bilancia…”
Noi non saremo proprio come i nostri antenati ma forse qualcuna di quelle caratteristiche è rimasta come impronta genetica o ambientale fino ai giorni nostri.
Io credo che si possa parlare del carattere di una comunità o degli atteggiamenti “tipici” dei suoi componenti, evidenziati ripetutamente nel corso dei secoli, altrimenti non si spiegherebbero tanti comportamenti ripetuti, direi quasi automatici, che caratterizzano la storia politica e civile di una città come Spoleto.
E non si capirebbe come e perché, anche come individui, noi prendiamo in società atteggiamenti diversi da quelli, ad esempio, dei milanesi o dei napoletani.
Ma, lasciando da parte i giudizi negativi sul carattere degli spoletini del nostro concittadino Minervio, chiariamo intanto qual’era l’immagine conosciuta della comunità spoletina sei secoli fa, nel periodo in cui vive il nostro protagonista.
Quando si parla del carattere di qualcuno e si dice che ha “sangue forte”, sotto sotto, si intende che è di “cattiva indole”: si tratta di un tipo sicuro di sé,orgoglioso, ribelle, impulsivo e, magari, violento.
Se poi si usa il termine “bizzarro”, come fa il Fortini, si vuole dire che il tipo sotto esame è un pò fuori dal comune, che rispetto al prossimo si mostra stravagante o, come si dice a Spoleto, “strano”.
Dobbiamo ammettere un possibile fondamento “etnico” dei comportamenti o, meglio, degli atteggiamenti esteriori di individui facenti parte di una certa collettività, un fondo “proprio”, tipico di una comunità, non solo assimilato dall’ambiente, ma anche spontaneo e automatico, direi trasmesso ereditariamente .
Si dice che gli spoletini siano “orsi” o, addirittura, “strani”, ovvero alquanto misantropi ma anche difformi dall’umanità comune ed estranei o estraniati da essa: è vero?
E se è vero, è un dato che appartiene a tutti o soltanto a pochi individui, esemplari rappresentativi di un atteggiamento che diventa stereotipo per un’intera comunità?
Un residuo di Medioevo? Un effetto della “chiusura” tipica di una città cinta dalle mura? Un atteggiamento di natura sociale che è diventato carattere ereditario?
Difficile arrivare ad una conclusione, ma un orgoglio di tono aristocratico (“città nobile” dice il Fortini) e una malcelata scontrosità sembrano aver tolto agli spoletini (almeno “ quelli di una volta” ) la capacità o la voglia di adattarsi alle pratiche utilitaristiche comuni al resto dell’umanità, per affermare invece il proprio contegno altero.
Uno spoletino che sembra dar forza di verità al luogo comune, allo stereotipo dello “strano”, dell’orgoglioso che si rifiuta di piegarsi alle convenzioni comuni, al parere degli altri è un condottiero vissuto a cavallo del 1500, Piersante Cecili detto “Saccoccio”: il Sansi lo definisce “torbido e violento ingegno di cittadino”.
Un giudizio senz’altro eccessivamente negativo, contraddetto però da quello di Severo Minervio, che abbiamo visto così aspro e intransigente nei confronti dei suoi concittadini in generale e che invece del nostro protagonista fa questo ritratto:
“Froderemmo Saccoccio Cecili dell’onore meritato se non lo chiamassimo principale ornamento del nome Spoletino.
Fu oltremodo strenuo e tenace, fortissimo nel sopportare fatiche e digiuni.
Principale esponente della fazione Guelfa e suo capo indiscusso.
Fu sempre dalla parte del popolo; molti benefici vennero alla Patria per merito suo; eccelleva per lealtà e integrità e dalle guerre spesso riportò gloria”.
Purtroppo di Saccoccio possediamo poche notizie sparse e questo giustifica la scarsa conoscenza che abbiamo di lui; più che altro ci è arrivata la fama del suo coraggio e del suo atteggiamento altero, manifestati in occasione della sua ultima battaglia e della sua morte.
Ma i giudizi positivi sulle sue capacità militari e sulle innovazioni tattiche da lui introdotte nelle compagnie di fanti ai suoi ordini si trovano nella storia della Repubblica veneta del cardinale Pietro Bembo e in quelle di numerosi scrittori del suo tempo.
Successivamente si occuparono di lui gli storici spoletini (Bernardino Campello soprattutto) un po’ troppo portati ad esaltarne le gesta e a farne un mito per essere del tutto attendibili.
Studi molto più seri sono quelli recenti del dr. Luigi Rambotti, direttore dell’Archivio di Stato, a cui sono ricorso per tante informazioni sul nostro protagonista.
La prima volta che le Riformanze del Comune di Spoleto parlano di lui è già chiamato “Saccoccio”, soprannome di origine ignota, forse familiare: nel 1495 venne incaricato, insieme ad Antonio di Pietro, di condurre una schiera di soldati spoletini a Todi per aiutare gli Atti, guelfi e alleati del Comune, contro i loro nemici Chiaravallesi.
Ma precedenti incarichi comunali risalgono al 1487 e sono incarichi prestigiosi in quanto lo vediamo priore o ambasciatore presso il governatore pontificio, come attestano gli atti del Catasto.
Considerando che dovesse essere tra i venti e i venticinque anni, si pensa che sia nato intorno al 1465.
Era figlio di un notaio comunale e proveniva da una illustre famiglia spoletina che, secondo alcuni tra cui il Sansi, abitava il palazzo che poi fu dei Vigìli, dei Gavotti e infine dei Pompilj, quello a cui è annessa la torre che, contro la verità storica, viene identificata come la Torre dell’Olio: ecco perché proprio il Sansi gli ha fatto intitolare la via che costeggia quel palazzo.
Più probabilmente però l’abitazione familiare dei Cecili stava , come attesta il Catasto del 1460, dalle parti dell’attuale Palazzo comunale, in vaita San Giovanni.
Piersante aveva tre fratelli e si formò anche una famiglia sua: ebbe due figlie femmine a cui dette una dote ma che non ereditarono niente da lui, secondo l’uso antico; almeno così risulta dai documenti del tempo.
Come si era formato questo guerriero spoletino al “mestiere delle armi”?
A quei tempi un giovane robusto e coraggioso di stirpe aristocratica cominciava a battagliare nelle dispute e nelle faide cittadine, in cui erano coinvolte le grandi famiglie e tra queste, quasi sicuramente, anche la sua.
Se emergeva per capacità e personalità poteva venir chiamato a svolgere qualche incarico militare per la comunità cittadina e così aveva occasione di incontrare qualche condottiero già affermato a cui unirsi per imparare il mestiere.
E in seguito, con un po’ di fortuna e tanta spregiudicatezza, poteva organizzare una propria compagnia di mercenari, arruolando parenti, amici e gente d’ogni risma, largamente disponibile in quei tempi di violenza e di miseria.
Se poi il novello capitano di ventura aveva successo al servizio di qualche stato minore o di qualche signorotto locale, spesso arrivava ad essere assoldato dal Papa, dalla Repubblica di Venezia o da qualche regnante straniero: questo è stato il “cursus honorum” di Braccio da Montone, dello Sforza, del Gattamelata e di Bartolomeo d’Alviano.
Poteva essere anche quello di Saccoccio se non fosse morto poco dopo i quarant’anni.
Ma torniamo agli inizi della carriera del nostro eroe.
In quello stesso 1495 venne nominato arbitro, insieme a Giovanni Martani, nella disputa tra il Comune di Norcia e i fuoriusciti ghibellini.
Come si vede, era ancora piuttosto giovane ed era sempre accompagnato da qualcuno più esperto di lui, forse per frenarne il carattere un po’ troppo focoso, che comunque ben lo predisponeva al mestiere delle armi.
Erano i tempi in cui la discesa di Carlo VIII in Italia aveva destabilizzato tutti i poteri preesistenti nel paese, anche quello pontificio, e quindi le famiglie importanti si facevano largo con la politica, la diplomazia, l’intrigo e, soprattutto, con le armi, per prenderne il posto.
Nascevano nuove signorie, splendide per le arti e le ricchezze che i commerci avevano dato all’Italia, ma spietate contro i nemici e, anche, contro i loro stessi sudditi.
Nelle nostre zone, i Baglioni a Perugia, i Varano a Camerino, i Vitelli a Città di Castello, gli Atti e i Chiaravallesi a Todi lottavano per impadronirsi del controllo nei loro territori e per ampliarli a spese degli altri.
Come vedremo, anche il Cecili non seppe resistere alla tentazione.
Il Rinascimento nasceva così, tra splendori e miserie, con la permanenza, però, della mentalità medioevale, faziosa e feroce, e non sapeva fare a meno dei metodi violenti e prevaricatori che avevano contraddistinto l’età precedente.
Gli uomini d’arme, i capi militari avevano largo spazio per le loro imprese.
E il nostro Saccoccio fu in mezzo a questo mondo e vi si fece una buona reputazione di condottiero coraggioso e capace.
In quel periodo di transizione il Comune di Spoleto schivava scaltramente il potere pontificio debole e corrotto, contestualmente dichiarandosi fedele al papa, e, per difendere il proprio predominio sui vicini e per acquistarne dell’altro, si barcamenava tra quelli che ancora si chiamavano guelfi e ghibellini, seguendo la parte che più sembrava promettere aiuto con la forza e con la diplomazia.
Così il nostro Cecili nel 1497 venne chiamato a far parte dei “sei dell’Arbitrio” che dovevano condurre la guerra decretata contro i ghibellini Ternani che devastavano il territorio di Cesi, nel corso della lunga disputa tra Spoleto e Terni per il dominio sulle Terre Arnolfe.
L’interminabile serie di atti di guerra tra i due comuni per il possesso di quelle terre è durata per tutto il XV secolo con un alternarsi di battaglie, scorrerie e reciproche invasioni, oltre che con il periodico ricorso all’arbitrato della Corte pontificia da parte di chi aveva avuta la peggio.
Tanto che alla fine il papa Alessandro VI Borgia decise di chiudere la questione estromettendo tutti e due i contendenti e assegnando il possesso delle Terre Arnolfe, tranne un piccolo territorio lasciato al Ducato di Spoleto, alla Camera Apostolica, cioè a se stesso.
Il territorio disputato comprendeva una larga fascia montagnosa e boschiva a cavallo dei monti Balduini che alla fine del primo millennio era stata feudo di un certo Arnolfo: i centri più importanti erano Cesi, capoluogo di tutta la zona, Porcaria (oggi Portaria), Macerino, Acquasparta, Massa Martana e Montecastrilli, tutte località che controllavano il percorso della “via delle pecore” che univa Spoleto a Carsule, cioè il diverticolo della Flaminia al ramo principale, almeno nell’antichità.
Era la strada delle transumanze ma anche quella percorsa da Lucrezia Borgia per venire a Spoleto.
Saccoccio Cecili, quale più valido esponente militare della città, ebbe l’incarico dal Comune di vigilare, occupare e difendere le Terre Arnolfe contro le incursioni dei Ternani.
Probabilmente fu in queste circostanze che fece la conoscenza di Bartolomeo d’Alviano , condottiero tuderte, di circa dieci anni più anziano di lui, e capitano generale dei Guelfi dell’Umbria, con il quale combatté a Colleluna una battaglia vittoriosa contro i ternani, vittoriosa ma non decisiva.
“Uomo di piccola statura, di stentata favella e d’ignobile aspetto”, come viene descritto dalle cronache del tempo, imparentato con gli Atti e quindi guelfo, Bartolomeo d’Alviano dominava in campo militare più per le sue doti di carattere e per abilità politica che per la capacità strategica o tattica.
In collaborazione con lui, Saccoccio Cecili fu inviato con truppe spoletine a difendere Sangemini dai Ghibellini Chiaravellesi: in questa circostanza riuscì con un’azione personale a liberare Morichetto da Montefranco, importante personaggio guelfo della zona, dalla prigionia dei ternani.
Da tutti questi fatti si comprende come il Cecili , schierato dalla parte guelfa, fosse un prezioso collaboratore di Bartolomeo d’Alviano nelle sanguinose lotte per il controllo del territorio pontificio, lotte che coinvolgevano anche i Colonna e gli Orsini nel Lazio e fin qui in Umbria.
Tanto più che nel 1498 il Comune lo nominò rappresentante di Spoleto alle nozze di Bartolomeo d’Alviano con Pentasilea Baglioni, segno chiaro del legame che egli aveva con quel condottiero che sarà così importante per il suo destino personale.
In questo stesso anno il Cecili fu incaricato dai priori di Spoleto di soccorrere con le truppe comunali gli Orsini che erano stati sconfitti a Montecelio dai Colonnesi.
Lasciò la città e si collegò con Giulio Orsini e Bartolomeo d’Alviano per attaccare Palombara Sabina difesa bravamente da Troilo Savelli.
Vittoria guelfa e grosso merito attribuito a Saccoccio.
Si arrivò al 1500 quando il Cecili venne incaricato dal Comune di un’ambasceria importante: si trattò di andare a Foligno per rendere omaggio a Cesare Borgia che dalle Romagne da lui conquistate stava tornando a Roma.
Il figlio di papa Alessandro VI si stava creando una signoria personale sulle terre nominalmente soggette a suo padre, combattendo contro i Varano, i Montefeltro, gli Sforza e gli Ordelaffi di Forlì.
In questo marasma bellico, nel 1501, il nostro Cecili fu conestabile (cioè comandante generale) di 3.000 fanti spoletini al servizio del Valentino contro i Varano di Camerino.
Quindi l’anno dopo lo troviamo nell’aquilano ad appoggiare l’esercito di Girolamo Gaglioffi, alleato del Borgia e degli Orsini, contro gli Aragonesi nel corso della guerra tra i Francesi e il Regno di Napoli.
Nel giugno del 1502 riprese la lotta tra i pontifici di Cesare Borgia e i Varano di Camerino.
Saccoccio, insieme ad Oliverotto da Fermo, alla testa di 4.000 uomini, compì numerose spedizioni nelle Marche e in Romagna contro i Varano di Camerino, i Montefeltro e gli Ordelaffi.
A settembre assaltò e conquistò Castel San Giovanni (località poco a Sud-est di Cascia) tenuto dai camerinesi e poco dopo assaltò e occupò il castello di Montesanto, posto di fronte a Sellano, anche questo tenuto dai camerinesi, alleati dei Trevani che lo rivendicavano.
Poi rientrò a Spoleto, dopo la morte del papa Alessandro VI, al momento in cui logicamente termina la sua collaborazione col Valentino ormai privo della protezione del padre.
I suoi concittadini affidarono allora a Saccoccio il comando delle loro soldatesche per compiere una spedizione contro Potenza Picena, occupata dai soldati dei Varano di Camerino con cui Spoleto era in lotta per la conquista dell’alta Valnerina.
In breve tempo, col tiro delle artiglierie e continui assalti, obbligò il presidio camerinese in quella città alla resa a patti.
Per questa vittoria venne premiato dal Comune con l’esenzione a vita da ogni tributo.
Nel giugno 1503 eccolo nuovamente a L’Aquila con truppe assoldate dagli spoletini ma il nemico è cambiato: adesso si trattava degli spagnoli di Ferdinando d’Aragona che avevano occupato il Regno di Napoli.
Il 1° settembre 1503, tornato a Spoleto, riconquistò Castel San Giovanni, occupato dai Trevani con l’aiuto di emissari di papa Borgia;
occupata la fortezza Saccoccio li fece passare per le armi.
Ma il papa era morto, c’era la “sede vacante” e il nostro eroe questa volta la passò liscia.
E a questo punto si delineò una nuova ambizione per Saccoccio: divenuto sicuro di sé e circondato da un notevole consenso popolare, approfittò della incerta situazione di potere esistente all’inizio del pontificato di papa Giulio II della Rovere per cercare di diventare signore di Spoleto.
Settembre 1504: divenuto capo del partito popolare tentò di imporsi alle famiglie aristocratiche che dominavano la vita pubblica nella sua città.
Durante le lotte cittadine che ne conseguirono uccise un suo competitore, Galeazzo de Domo, e costrinse gli esponenti del partito nobiliare a rifugiarsi in Rocca.
Ma con papa Giulio II c’era poco da scherzare: l’energico pontefice inviò a Spoleto il cardinale di San Vitale, Antonio Ferrero,con un grosso esercito; questi sconfisse Saccoccio e lo bandì per sempre dalla sua città.
Allora il Cecili andò nel norditalia e passò al servizio della Repubblica di Venezia, anche perché là si trovava impegnato come condottiero Bartolomeo d’Alviano; gli fu subito riconosciuta una provvigione annua di 200 ducati.
C’era in quel tempo un vasto campo d’azione per un valido condottiero come lui nell’Italia devastata dalla guerra incessante tra Francesi e Spagnoli con l’intromissione del Papa e dell’Imperatore: dopo il meridione d’Italia, ormai in mani spagnole, toccava al nord ed in particolare allo stato più forte e più esteso di quella regione, la Repubblica di Venezia, di subire l’attacco degli stranieri in cerca di territori e, soprattutto, di popolazioni da spremere.
A dicembre 1504 Saccoccio stazionava con le soldatesche al suo comando nel veronese per impedire il passo alla fanteria imperiale di Massimiliano d’Asburgo che cercava di scendere in Italia.
Per far questo raccolse truppe provvisionali venete (cioè mercenari con ferma temporanea).
La guerra tra Venezia e l’Impero continuò per diversi anni con una serie di vittorie dei veneziani guidati da Bartolomeo d’Alviano che costrinse Massimiliano a tornare al di là delle Alpi; in questa serie di scontri fu certamente coinvolto anche il nostro eroe che ci risulta essere sempre al servizio della Serenissima, tranne un breve incarico svolto per il re di Francia.
Nel 1508 scoppiò la guerra della Lega di Cambray (Il papa Giulio II aveva fatto un’alleanza con Francia,Spagna e Impero per togliere i territori di terraferma alla repubblica di Venezia) e di nuovo il Cecili (o Saccoccio da Spoleto, come lo chiamavano di solito) con Bernardino di Montone andò a chiudere i passi della Val d’Adige agli imperiali.
Era talmente apprezzato che gli fu affidato l’incarico di conestabile a Rovereto, cioè di comandante generale della piazza che chiudeva la strada dall’Austria all’Italia.
Presto gli fu dato il comando di 4.000 fanti: in quel tempo la sua paga complessiva era passata a 1.550 ducati annui.
Nell’aprile 1509 Saccoccio si trovava al campo di Pontevico, punto di raccolta delle truppe veneziane con 570 fanti, ma intanto stava raccogliendo le “cerne” venete (paesani arruolati per fronteggiare l’estremo pericolo per la repubblica) per potenziare i suoi reparti.
Adesso il pericolo più immediato per Venezia erano i francesi di Luigi XII che occupavano Milano.
Il Senato veneto che non si fidava mai di un condottiero unico nominò due comandanti, Nicolò Orsini da Pitigliano e Bartolomeo d’Alviano (che tra l’altro erano cugini), predisponendo così le differenze di strategie e di comportamento tra le varie parti dell’esercito che porteranno alla sconfitta di Agnadello.
Uno che se ne intendeva, un certo Napoleone Buonaparte, diceva:” Meglio un generale cattivo che due buoni”.
In questo esercito veneziano diviso in due, Saccoccio comandava la quarta colonna sotto gli ordini di Bartolomeo d’Alviano.
Gli ordini della Serenissima erano di andare verso Milano ed occuparla per toglierla ai Francesi.
Ma lungo il tragitto le due parti dell’esercito veneto si separarono: l’Orsini, ligio agli ordini, andò avanti verso Milano mentre l’Alviano, rimasto indietro, ebbe un incontro imprevisto con l’esercito francese che avanzava, in direzione opposta alla sua.
A parte la famosa cavalleria dei grandi signori di Francia (2.300 uomini d’arme) e una forza di fanteria che superava le 25.000 unità, Luigi XII schierava un parco di artiglieria di 50 moderni cannoni.
L’esercito della Serenissima aveva una numerosa fanteria ma la cavalleria e l’artiglieria seguirono l’Orsini e quindi il giorno dello scontro furono questi gli elementi che mancarono ai veneti.
L’Orsini venne avvertito dall’Alviano dell’incontro coi francesi ma ritenne che fosse meglio evitare battaglia e proseguire.
Bartolomeo d’Alviano, con solo metà dell’esercito a disposizione, ma con la parte migliore della fanteria, decise di accettare la battaglia.
Era la sera del 13 maggio 1509 e l’esercito del re di Francia e la parte di quello veneziano rimasta con l’Alviano si accamparono a poca distanza uno dall’altro nell’angolo formato dal corso dell’Adda coi suoi affluenti, pronti a darsi battaglia la mattina seguente: quella che fu chiamata battaglia di Agnadello o della Ghiara d’Adda.
Alla riunione dei comandanti, la mattina del 14 maggio, il Cecili consigliò di seguire l’Orsini e di non scendere in campo: ma l’Alviano lo fulminò con una frase che praticamente condannò a morte Saccoccio:”Chi ha paura non vada alla guerra!”.
L’inaspettato e immeritato oltraggio di un uomo che riteneva suo amico, dopo tante battaglie combattute insieme, lo ferì così profondamente che, dopo aver risposto:”La paura io l’ho lasciata nel ventre di mia madre”, Saccoccio se ne andò presso i suoi soldati, intenzionato a mostrare coi fatti che il consiglio di evitare lo scontro era frutto di prudenza e non di codardia.
Seguì una battaglia in cui Piersante Cecili dimostrò tutte le sue virtù militari: schierati i suoi soldati sopra l’argine di un fiume in secca, per rendere molto meno efficace l’assalto della cavalleria francese, resistette per ore agli attacchi di quella.
Ma ad un certo punto intervenne la moderna e potente artiglieria di re Luigi XII e i provvisionali e le “cerne” venete, presto stanchi di sottostare passivamente al fuoco nemico, superarono l’argine e mossero risolutamente contro i cannoni francesi e i tiratori guasconi che li difendevano .
In tal modo i soldati del Cecili si esposero alle cariche dei cavalieri francesi: egli dapprima cercò di fermare i suoi a ridosso dell’argine protettivo, ma, poi, visto che non ci riusciva, si gettò nella mischia anche lui.
Intanto Bartolomeo d’Alviano, nel guidare i suoi soldati in un attacco, venne ferito al viso e fatto prigioniero; i suoi si sbandarono, fuggirono dal campo di battaglia e cercarono la salvezza correndo dietro l’avanguardia dell’Orsini ormai lontana; seguì la sconfitta in cui sembra che i veneziani abbiano avuto ben 6.000 morti.
L’Alviano rimase quattro anni prigioniero dei Francesi ed avrà avuto il tempo di pensare:”Aveva ragione quel maledetto spoletino!”
Quanto a Saccoccio, lasciamo la parola a Bernardino Campello:
“Il Cecili intanto combattendo valorosamente, uccisogli sotto il cavallo, rimase a piedi in mezzo alle squadre dell’esercito vincitore; ma con un’alabarda, che gli venne alle mani, cominciò a schermirsi dalla calca che gli veniva addosso, tanto che in poco d’ora fattosi intorno una larga piazza, alzò quasi un argine di corpi tronchi e uccisi, attendendo a ferire ed ad abbattere, qualunque se gli appressasse senza alcun riguardo della sua vita o pietà dell’altrui. Ammirati gli stessi avversari del fatto, cominciarono a confortarlo a lasciar l’armi, e a non profondere tanto inutilmente la vita. Egli nondimeno, serrato il cuore e l’orecchio ad ogni motto d’arrendersi, tutto asperso di sangue, senza far parole o minacce, senza prender respiro, e fatto più feroce dal dispregio della vita, non lasciò mai di menar l’asta implacabilmente, finché, dalla moltitudine oppresso, cadde intrepida vittima del suo vanto”.
Altre fonti parlano di due ferite di frecce alla fronte o di quattro cavalieri che lo trafiggono ai fianchi.
E’ chiaro che, dopo quello che gli aveva detto davanti a tutti gli altri comandanti Bartolomeo d’Alviano, per Saccoccio non esisteva altro modo di comportarsi o, almeno, non esisteva per uno “forte e bizzarro” come uno spoletino dei suoi tempi: così avrebbe detto Pietro Fortini e così avrebbero pensato tutti quelli che si occupavano di fatti guerreschi.
Il suo corpo fu recuperato, come avveniva per i combattenti più importanti, e trasportato a Spoleto per esservi sepolto con tutti gli onori.
Il 17 agosto 1509 il consiglio di Spoleto incaricava i Priori e dodici cittadini, scelti da loro, di provvedere a che il Comune prendesse degna parte ai funerali del Cecili, “benemerito cittadino che aveva reso alla patria tanti e così segnalati servigi”.
Atteggiamento ipocrita che vuol fare dimenticare l’esilio perpetuo comminato a Saccoccio appena cinque anni prima.
Piersante Cecili, data la sua fama, l’importanza della sua famiglia e il sito della sua abitazione, fu con ogni probabilità sepolto nella cattedrale: mancano notizie in merito.
D’altra parte nella ristrutturazione dell’Arrigucci del 1600 nel duomo molte tombe furono distrutte e questa potrebbe essere la causa della mancanza di notizie sul sepolcro di Saccoccio.
Ma di lui ci resta una memoria che ha suscitato negli spoletini di tutte le epoche un moto di orgoglio, di condivisione istintiva, seppure solo ideale, per gli atteggiamenti coraggiosi ed alteri con cui Piersante Cecili ha fatto onore al nome di Spoleto.
E adesso, almeno lo spero, quando passeremo per via Cecili sapremo un po’ meglio a quale tipo di spoletino è intitolata quella via e forse ci chiederemo se, per caso, il nostro carattere non somigli un po’ al suo e a quello degli spoletini suoi contemporanei.