Prof.ssa Maria Carla Spina “Primo Levi”

PRIMO LEVI

Lezione 1.

Primo Levi, testimone narratore della Shoà

Le ragioni di una scelta

Il 31 luglio scorso è stato celebrato il centenario della nascita di Primo Levi, ma di questo scrittore, scampato allo sterminio degli Ebrei e divenuto tra i più autorevoli narratori della “ shoà”, la tragedia che ha investito l’Europa nel XX secolo, vale la pena di occuparsi, al di là delle occasioni celebrative, per la sua altissima statura morale e la qualità straordinaria della scrittura.

È opportuna una precisazione di tipo lessicale: lo sterminio degli Ebrei viene ora designato con il termine “olocausto”, ora con il termine “shoà”.

La prima parola viene dal greco e significa “bruciato per intero”, con riferimento alle vittime, che, nell’antica liturgia ebraica, venivano sacrificate sul fuoco in onore di Dio; la seconda parola viene dall’ebraico e significa “distruzione”.

Il termine “olocausto” non è gradito a P. Levi a causa della connotazione religiosa implicita in tale parola, che sembra equiparare gli Ebrei agli animali e in qualche modo annettere al loro massacro un’idea di giustizia divina.

Anche l’uso di “shoà” è raro nello scrittore. Bisognerebbe parlare di sterminio degli Ebrei, ma per motivi di brevità si ricorre spesso e volentieri a parole più sintetiche.

La famiglia

Primo Levi nasce a Torino, il 31 luglio 1919, da una famiglia ebraica, i cui antenati erano giunti in Italia dalla Spagna, nel Cinquecento.

In famiglia si respirava un clima culturale stimolante. Il nonno paterno era un ingegnere civile, il padre, Cesare Levi (1878-1942), era un ingegnere elettrotecnico, che per motivi di lavoro aveva soggiornato in Belgio, Francia, Ungheria.

Il figlio lo ricorda in molte occasioni: era un uomo che amava  la vita, era appassionato di libri, che comprava e leggeva in gran quantità; suonava il pianoforte, conosceva le lingue straniere, era curioso di tutto, amava lo studio e aveva raggiunto una cultura da autodidatta, di stampo positivista. La sua appartenenza alla cultura ebraica si esplicava più nel rispetto di alcune usanze religiose che nella religione stessa.

Primo, tanto timido e introverso, quanto il padre era esuberante e mondano, dal punto di vista del carattere aveva poco in comune con lui, ma gli deve la varietà degli interessi e la vocazione scientifica.

Anche la madre, Ester Luzzati (1895-1991), era di famiglia ebraica; era figlia di un mercante di stoffe. Sposa Cesare nel 1918; tra i due c’è una grande differenza d’età. Anche lei era amante della lettura, della musica, della cultura.

Con lei Primo ha un legame molto profondo; la madre sarà destinata a sopravvivere alla morte prematura e tragica del figlio.

Nel 1921 nasce la sorella Annamaria; il vincolo che li unirà per tutta la vita non sarà solo di natura affettiva, ma consisterà in un’affinità spirituale e in una profonda intesa.

Gli studi

Dopo aver frequentato le elementari, con qualche interruzione per motivi di salute, Primo si iscrive al ginnasio liceo “Massimo d’Azeglio”, prestigiosa scuola torinese, in cui maestri di cultura e di libertà avevano preparato una generazione di giovani destinati, a loro volta, a testimoniare i valori appresi: tra questi si contano Norberto Bobbio, Giulio Einaudi,Vittorio Foa, Leone Ginzburg, Massimo Mila, Cesare Pavese.

Al liceo Levi deve la sua formazione. Agli esami di maturità si registra un dramma: lui che era il primo della classe venne rimandato ad ottobre con tre in italiano. L’insuccesso fu dovuto al fatto che lo studente, invitato a svolgere un titolo sulla guerra in Spagna, un argomento su cui forse non poteva dire quello che pensava, consegnò il foglio in bianco.

Ma ancor più  l’episodio fu causato dallo stato di profonda agitazione in cui lo aveva gettato alla vigilia degli esami la visita di un emissario del distretto militare, che gli aveva consegnato la cartolina precetto, accusandolo di renitenza di leva per non essersi presentato alla pre-leva; un disguido postale era all’origine dell’equivoco.

Accanto agli studi Primo si dedica con passione all’alpinismo, attività a cui attribuisce un ruolo importante nella formazione del suo carattere, della capacità di resistere al freddo e alla fatica. Sarà l’alpinismo, come vedremo, uno dei fattori della sua sopravvivenza al lager.

Nel 1937 si iscrive alla facoltà di Chimica e segue con entusiasmo le lezioni e gli esperimenti di laboratorio. Nel 1938 vengono emanate le leggi razziali, che escludono da scuole e università gli studenti di religione ebraica, consentendo tuttavia a chi è già iscritto di continuare a frequentare; così Levi può proseguire  gli studi, con qualche ostacolo, e laurearsi con il massimo dei voti e la lode il 2 giugno 1941.

L’ascesa del regime fascista

Intanto il regime fascista cresce. Il padre si è iscritto al partito per non avere difficoltà nel lavoro e anche per quieto vivere; indossa la divisa fascista, ma con fastidio. Il figlio diventa balilla e avanguardista finché le leggi razziali glielo impediscono.

Primo frequenta la sinagoga di Torino, dove viene letta la Bibbia, ma neanche l’ebraismo lo interessa. Scoprirà la sua identità ebraica ad Auschwitz. 

I primi lavori

Ottiene i primi lavori dei quali ha necessità, anche perché il padre muore prematuramente nel 1942. Lavora sotto falso nome in una cava di amianto nei pressi di Balangero, ad una quarantina di chilometri da Torino; poi trova lavoro a Milano in una fabbrica di medicinali, la Wander, che, essendo svizzera, non è soggetta al rispetto delle leggi razziali.

Nel capoluogo lombardo si trattiene per quattordici mesi; frequenta un gruppo di amici torinesi, che professano idee antifasciste; è un periodo sereno della sua vita.

La Resistenza e l’arresto

Caduto il regime fascista nel luglio 1943, Levi, insieme ad alcuni amici, si unisce ad una banda di partigiani, scarsamente organizzata, che opera in Val d’Aosta. Anche la sorella è entrata nella Resistenza e svolge compiti di staffetta.

Il 13 dicembre, in seguito ad una delazione, trecento militi fascisti sorprendono Levi e i compagni; li arrestano e li portano ad Aosta, dove li sottopongono ad interrogatori e maltrattamenti. P. Levi  preferisce dichiararsi ebreo, anziché partigiano, sapendo che come partigiano sarebbe stato ucciso subito e non immaginando certo che il destino a cui andava incontro non sarebbe stato migliore di una morte immediata.

Da Aosta alla fine di gennaio del 1944 viene trasferito nel campo di concentramento di Fossoli, vicino a Carpi, in provincia di Modena. Nel campo sono internati, oltre ai prigionieri inglesi e americani, le persone sgradite alla repubblica di Salò.

Il 20 febbraio i Tedeschi subentrano agli Italiani nella gestione del campo; il 21 annunciano ai prigionieri la partenza per l’indomani e il 22 febbraio seicentocinquanta prigionieri, uomini, donne, vecchi e bambini, vengono ammassati su camion e portati alla stazione di Modena, dove li attendono dodici carri merci.

Il carico viene stipato nei vagoni che vengono piombati dall’esterno. Il carro, in cui viene rinchiuso Primo, contiene quarantacinque prigionieri; la più anziana sta per compiere novanta anni. Questo vagone è uno dei più “fortunati”: i sopravvissuti saranno quattro!

Solo durante il viaggio i prigionieri vengono a sapere la loro destinazione: Auschwitz, un nome a loro sconosciuto.

Verso Auschwitz

Il viaggio dura quattro giorni e quattro notti, al termine dei quali il convoglio giunge a destinazione. Già in treno comincia il processo di degradazione dei prigionieri, costretti a stare ammucchiati, senza acqua, senza servizi igienici, spinti dalla necessità a fare i propri bisogni davanti a tutti.

Sulla banchina di Auschwitz ha subito luogo una prima selezione sommaria: novantasei uomini e ventinove donne vengono inviati al campo; gli altri, più di cinquecento, vengono soppressi subito, come Levi saprà in seguito.

 Levi viene destinato al campo di lavoro di Buna-Mònowitz, a sette chilometri da Auschwitz, dove sorge la fabbrica di un colosso dell’industria chimica tedesca, la IG-Farben, che si avvale della mano d’opera dei prigionieri.

La prigionia ( 26 febbraio 1944- 27 gennaio 1945)

Ha inizio per Levi la durissima esperienza del lager: il lavoro massacrante,la fame e la sete tormentose, il freddo insostenibile, la paura della morte sempre incombente.

Come siano potuti sopravvivere alcuni, a dire il vero pochissimi (un cinque per cento), a tali condizioni di vita è motivo di meraviglia e di riflessione. Per quanto riguarda lo scrittore, tra i fattori che lo hanno aiutato e che lui stesso ha individuato in più di una occasione, si conta una rudimentale conoscenza del tedesco, acquisita all’ università, studiando su un testo pubblicato a Berlino; la capacità di resistere al freddo e alla fatica raggiunta praticando l’alpinismo fin dall’adolescenza; la giovane età e la corporatura minuta; ma soprattutto, rileviamo noi, la forza del carattere.

Anche la fortuna, come Levi non manca di sottolineare, gioca un ruolo importante nella sua vicenda. Nel mese di giugno conosce un muratore piemontese, Lorenzo Perrone, giunto nel lager come dipendente di un’impresa italiana; da esterno, Lorenzo è meno soggetto ai controlli delle SS e, essendo generoso, comincia ad aiutare Primo, portandogli quotidianamente del cibo raccolto dagli avanzi dei compagni. 

Inoltre, grazie alla sua laurea in chimica, Levi , dopo aver affrontato un “regolare” esame, viene messo a lavorare nel laboratorio di chimica della fabbrica di gomma, dove può vivere almeno al riparo e può persino  mettere per iscritto i primi appunti sulla sua vicenda, certo a rischio della vita, nel caso che venga scoperto. Gli appunti costituiscono il primo nucleo di Se questo è un uomo, il libro in cui l’autore racconta l’esperienza del lager,  uno dei testi fondamentali sulla tragedia dello sterminio ebraico.

Infine, la fortuna assisté paradossalmente Levi grazie ad una sua imprudenza, per la quale aveva contratto la scarlattina: aveva mangiato la zuppa avanzata ai malati del reparto infettivi, dove imperversavano scarlattina e difterite. Anche l’amico Alberto ne mangiò, ma non si ammalò, perché  aveva avuto la scarlattina da piccolo e disponeva di anticorpi.

 La sorte dei due amici fu, però, molto diversa da come ci si sarebbe potuti aspettare. All’arrivo dei Russi, nella notte tra il 17 e il 18 gennaio 1945, i Tedeschi furono costretti a partire in fretta e furia. La fuga precipitosa impedì loro di uccidere i malati come avevano progettato; li abbandonarono al loro destino e trascinarono gli altri con sé costringendoli ad una marcia forzata verso Buchenwald e Mauthausen; i deportati morirono in gran parte; tra loro Alberto, l’amico più caro di Primo.

Dopo la liberazione Levi viene portato nel campo centrale di Auschwitz e successivamente trasferito a Katowice, un campo sovietico di passaggio, dove lavora come infermiere.

Sulla via del ritorno ( giugno 1945 – ottobre 1945)

Nel mese di giugno ha inizio il viaggio di ritorno in treno, una vera odissea. Il convoglio compie un percorso tortuoso attraverso mezza Europa: furono attraversate la Russia Bianca, la Romania, l’Ungheria, l’Austria, la Germania stessa.

Giunto in Italia, passa attraverso un campo di smistamento vicino a Verona; il 19 ottobre giunge finalmente a casa.

Il viaggio di ritorno viene raccontato nel libro La tregua.

Il lavoro

Tornato a casa, Levi è pressato dalla necessità di trovare un lavoro per mantenersi, compito non facile per uno con la sua storia in un’Italia uscita a pezzi dalla guerra. Finalmente , nel gennaio 1946, viene assunto dalla Duco – Montecatini, una fabbrica di vernici, che ha la sede ad Avigliana, non lontano da Torino, dove si trasferisce.

La scrittura

L’altra necessità a cui deve far fronte, come tale la vive, è il racconto della sua tragica esperienza. Nelle pause di lavoro scrive sotto l’urgenza di testimoniare quello che aveva visto, di comunicarlo agli altri, di far comprendere l’abiezione a cui l’uomo può giungere quando abdica alla propria umanità.

Quando il dattiloscritto è pronto lo sottopone agli amici per ricevere dei consigli e va in cerca di una casa editrice che glielo pubblichi. Si rivolge alla Einaudi, dove viene letto da diversi autori, tra i quali Natalia Ginzburg e Cesare Pavese. Tocca alla scrittrice, ebrea come lui, il compito di restituirglielo comunicandogli che la casa editrice rifiuta di pubblicarlo. Il valore del libro non fu in quella occasione capito; fu confuso con uno dei tanti memoriali sulla guerra che allora circolavano in grande quantità.

Anche se il rifiuto lo amareggiò, Levi riuscì a capirne le ragioni, come dimostrano le dichiarazioni rese in seguito sulla vicenda. “Bisogna pensare che allora Natalia usciva da un periodo tremendo, era la vedova di Leone Ginzburg e quindi capisco abbastanza bene il suo rifiuto, che esprimeva un rifiuto più ampio, collettivo. A quel tempo la gente aveva altro da fare. Aveva da costruire le case, aveva da trovare lavoro. C’era ancora il razionamento; le città erano piene di rovine; c’erano ancora gli Alleati che occupavano l’Italia. La  gente non aveva voglia di questo, aveva voglia di altro, di ballare per esempio, di fare feste, di mettere al mondo dei figli. Un libro come questo mio, e come molti altri che sono nati dopo, era quasi uno sgarbo, una festa guastata” (M. Belpoliti Primo Levi, di fronte e di profilo, Guanda, Mi, 1915, p.37).

Per iniziativa della sorella Anna Maria il testo viene sottoposto a Franco Antonicelli, intellettuale antifascista, che dirige una piccola casa editrice, la De Silva. Antonicelli capisce subito il valore dell’opera e ne stampa  duemilacinquecento copie, delle quali viene venduta circa la metà.

A causa dello scarso successo del libro Levi rinuncia all’attività di scrittore e si dà alla libera professione, ma senza risultati.

Il matrimonio

Insieme alla necessità del lavoro Levi sente il bisogno di crearsi una famiglia. Si fidanza  con un’amica della sorella, che conosce da tempo, Lucia Morpurgo, anche lei di famiglia ebraica, figlia di un professore di liceo e critico letterario e, a sua volta, insegnante. Il matrimonio si celebra nel 1947.

L’anno dopo nasce la figlia Lisa Lorenza, che deve il secondo nome a Lorenzo, il muratore, che aveva aiutato Levi a sopravvivere nel lager, ma che al ritorno aveva abbandonato il lavoro, si era lasciato andare ed era morto.

Dopo la fallimentare esperienza di lavoro in proprio, a dicembre del 1947, il chimico viene assunto a Settimo Torinese, in una piccola fabbrica di vernici, la Siva, dove lavorerà per circa trent’anni, fino alla pensione, diventandone direttore generale.

Il successo di Se questo è un uomo

Intanto si riaccendono le speranze di pubblicare Se questo è un uomo presso l’Einaudi, grazie anche alla mediazione di I. Calvino, che lavora presso la casa editrice. Il progetto subisce ancora un rallentamento per le difficoltà economiche in cui versa l’azienda, ma finalmente il libro esce nel 1958 con una tiratura di duemilacinquecento copie, subito esaurite.

L’anno precedente, il 1957, era nato il secondo figlio, chiamato Lorenzo, sempre in ricordo dell’amico Lorenzo, e lo scrittore aveva cominciato a scrivere il suo secondo libro, La tregua.

Nel frattempo Se questo è un uomo viene tradotto all’estero, anche in Germania e l’autore riceve molte lettere, anche da lettori tedeschi. Ne vengono proposte versioni radiofoniche, televisive e teatrali.

L’affermarsi dello scrittore e il crescere della fama

La tregua esce nel 1963 e ottiene il favore sia della critica che dei lettori; arriva terzo tra i finalisti del Premio Strega, che nel 1963 fu vinto da Lessico familiare di Natalia Ginzburg e vince il Premio Campiello, istituito quello stesso anno.

Nel 1965 Levi torna ad Auschwitz, in occasione di una cerimonia commemorativa della liberazione dei campi, e non prova una particolare commozione nel visitare il campo centrale, ormai trasformato in un museo e perciò alterato.

I successi ottenuti incoraggiano Levi ad andare avanti nella scrittura; scrive racconti, storie di fantascienza, poesie.

Nel 1975 esce Il sistema periodico, un libro che rivela la doppia natura di Levi, scrittore scientifico e scrittore umanistico al tempo stesso.

Pur amando molto il suo lavoro di chimico, nel 1975 si licenzia dalla Siva per dedicarsi alla scrittura a tempo pieno.

Nel 1978 pubblica La chiave a stella, un libro il cui protagonista è l’operaio piemontese Faussone, montatore di gru e tralicci. La tesi di fondo del libro è che la realizzazione dell’uomo consiste in “un lavoro ben fatto”.

La tesi suscita un grande dibattito sulle pagine culturali di quegli anni in cui dominava l’immagine dell’operaio-massa, alienato dal lavoro in fabbrica.

Nel 1981 esce La ricerca delle radici. Antologia personale. Si tratta di una scelta di passi di autori, che Levi considera suoi maestri.

Nello stesso anno Levi pubblica Lilìt, una nuova raccolta di racconti.

Nell’aprile del 1982 esce Se non ora quando?, un libro sulle battaglie dei partigiani ebrei nell’Europa dell’Est, che ottiene successo di pubblico e di critica; vince il Premio Viareggio e il Premio Campiello. 

Torna per la seconda volta ad Auschwitz; lo segue una troupe televisiva, che documenta il viaggio e registra un’intervista allo scrittore; questa volta le sue emozioni sono molto forti.

Nel 1982, quando Israele invade il Libano e vengono massacrati i profughi palestinesi nei campi di Sabra e Chatila, Levi esprime pubblicamente il suo dissenso nei confronti della politica sionista del governo israeliano, suscitando reazioni critiche nella comunità ebraica.

Intanto si dedica all’attività di traduttore; tra le opere tradotte c’è Il processo di Kafka, che lo impegna sul piano psicologico causandogli una profonda crisi depressiva.

Nel 1984 esce la raccolta delle sue poesie con il titolo Ad ora incerta.

Nel 1984 esce L’altrui mestiere, una specie di enciclopedia, in cui Levi raccoglie articoli vari, testimoni della ricchezza dei suoi interessi, che spaziano nei campi più disparati: linguistica, etologia, botanica, zoologia, ecc.

Viaggia all’estero, tra l’altro in America, dove i suoi libri vengono tradotti e diffusi

 Anche in Italia è molto noto, anche perché i suoi libri sono entrati nelle scuole, dove lo scrittore si reca per sensibilizzare i giovani sui temi sollevati da Se questo è un uomo e rispondere alle loro domande.

Levi interviene spesso su temi al centro del dibattito pubblico, come la responsabilità degli scienziati, il revisionismo storico, ecc. e gode di molto credito.

La morte

Nel marzo del 1987 lo  scrittore subisce un intervento chirurgico di lieve entità, ma si sente stanco e incapace di fronteggiare gli impegni familiari, accresciuti dalla salute precaria della madre e della suocera ormai molto anziane, ma soprattutto teme che la sua vena di scrittore sia esaurita.  

La mattina di sabato 11 aprile 1987 muore precipitando nella tromba delle scale del suo appartamento torinese.

Sul suicidio di Levi sono state fatte molte ipotesi; la più accreditata, anche perché basata sulle tante riflessioni disseminate nei suoi scritti, è che ad ucciderlo sia stato un senso di colpa per il grande privilegio di essere sopravvissuto allo sterminio, un sentimento che ha agito anche nel caso di altri intellettuali  ebrei scampati al lager; ad esempio Jean Amery (1912- 1978), scrittore austriaco, Paul Celan  (1920-1970), poeta rumeno di madrelingua tedesca, Bruno Bettelheim (1903-1990), psicoanalista austriaco, naturalizzato statunitense.

Ecco un passo significativo per capire in che senso Levi potesse provare un senso di colpa.

“Quasi tutti siamo usciti dal Lager con un senso di disagio e a questo disagio abbiamo applicato l’etichetta di “senso di colpa.[…] tutti, credo, o molti,abbiamo provato un certo disagio a pensare che sono morti tanti che valevano quanto noi o erano meglio di noi. Non sono i migliori ad essere sopravvissuti, in qualche caso sono stati i peggiori” ( dall’intervista rilasciata a Marco Vigevani in Primo Levi, Conversazioni e interviste, 1963-1967, Einaudi, To, 1997, p.2017).

Se questo è un uomo

Il titolo

Il libro costituisce il racconto della tragica esperienza vissuta dallo scrittore a partire dall’arresto, avvenuto il 13 dicembre 1943, per giungere alla liberazione dalla prigionia nel campo di Auschwitz, datata 27 gennaio 1945.

Forse  a suggerire il titolo fu un redattore della casa editrice De Silva, che fu ispirato dalla poesia posta in esergo.

Il senso del titolo è molto chiaro: “È ancora un uomo chi di ora in ora, di prova in prova, viene spogliato dell’aspetto fisico e distrutto nella sua esistenza morale?”. Così si leggeva nel pieghevole che accompagnava la pubblicazione del 1947.

Ma il titolo è pregnante; la domanda si può anche piegare nella direzione opposta: è ancora un uomo l’aguzzino, che privando la vittima della sua umanità, ne priva innanzitutto se stesso?

“Uomo” è la parola chiave di Se questo è un uomo. Nell’elencare i fattori a cui ritiene di dover la sua sopravvivenza, lo scrittore, nell’Appendice aggiunta al libro nel 1976 per l’edizione scolastica, annota come ultimo, non certo per importanza, il valore da lui attribuito all’essere umano: “E forse ha giocato infine anche la volontà, che ho tenacemente conservata, di riconoscere sempre, anche nei giorni più scuri, nei miei compagni e in me stesso, degli uomini e non delle cose, e di sottrarmi così a quella totale umiliazione e demoralizzazione che conduceva molti al naufragio spirituale” ( p.247).

 E certamente Primo Levi, sopravvissuto al male, senza esserne stato corrotto, incarna i valori più alti dell’umanità.”È  questo l’altissimo retaggio- come scrive Claudio Magris- che lo innalza al disopra di qualsiasi prestazione letteraria: la libertà perfino dinanzi al male e all’orrore, l’assoluta impermeabilità alla loro violenza, che non solo distrugge ma anche avvelena. Noi possiamo solo ringraziare Primo Levi per averci mostrato con la sua vita di che cosa possa essere capace un uomo”(M. Dini S. Jesurum, Primo Levi, Le opere e i  giorni, Rizzoli, Mi, 1992, pp.205-206).

La poesia posta in apertura: Shemà

Shemà in ebraico significa “preghiera”; si tratta della preghiera fondamentale degli ebrei incentrata sull’obbligo di ricordare la verità divina.

Il poeta, ricalcandone i toni, affida ai destinatari del testo l’imperativo di non dimenticare quello che è accaduto e di inculcarlo ai figli, pena la rovina loro, delle loro famiglie e delle loro case.

TESTO

Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un sì o per un no.

Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.

Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi alzandovi;
ripetetele ai vostri figli.

O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.

 La maledizione finale, d’intonazione biblica, sembra contraddire la pacatezza che connota tutta l’opera di Primo Levi; mai più si troveranno nei suoi scritti accenti del genere.

 Questo è il commento di Marco Belpoliti, il principale studioso di Levi: “Proprio sulla soglia del suo primo libro Levi non riesce a disfarsi della irrealtà che lo ha trattenuto nei mesi del campo. Per questo, per cercare di liberarsi, almeno provvisoriamente, da questa irrealtà, assume i toni del profeta biblico e lancia al suo lettore una invettiva e una maledizione durissima” . (M. Belpoliti, Primo Levi di fronte e di profilo, U. Guanda, Mi, 2015,p.108).

Mi sembra di poter rilevare che lo sdegno di Levi è rivolto non a chi ha fatto del male, ma a chi potrebbe farlo, sottraendosi al dovere della conoscenza, che per Levi è sempre il peccato più grande dell’uomo; non a caso, anche nell’inferno del lager, l’eroe di riferimento per lui è l’Ulisse dantesco.

La cattura e l’internamento

Il libro comincia con il racconto dell’adesione di Levi alla resistenza e con la sua cattura ad opera della Milizia Fascista. Come ebreo lo scrittore viene internato a Fossoli, presso Modena, dove sono detenute molte categorie di prigionieri sospetti al regime; i più numerosi sono gli ebrei, rappresentati da intere famiglie.

I Tedeschi, subentrati agli Italiani nella gestione del campo, comunicano ai prigionieri l’ordine di partenza immediata.

Per le notizie che già trapelavano su quello che accadeva nei campi tedeschi partire significava andare a morire.

Il congedo dalla vita                                             

Ed ecco lo stato d’animo dei prigionieri alla vigilia della partenza.

TESTO

( P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, To, 1958, Edizione speciale per la Repubblica, 2002, p.12) 

Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre misura, altri si inebriarono di nefanda ultima passione. Ma le madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli, e all’alba i fili spinati erano pieni di biancheria infantile stesa al vento ad asciugare; e non dimenticarono le fasce, e i giocattoli, e i cuscini, e le cento piccole cose che esse ben sanno, e di cui i bambini hanno in ogni caso bisogno. Non fareste anche voi altrettanto? Se dovessero uccidervi domani col vostro bambino, voi non gli dareste oggi da mangiare?

Nella baracca 6 A abitava il vecchio Gattegno, con la moglie e i molti figli e i nipoti e i generi e le nuore operose. Tutti gli uomini erano falegnami; venivano da Tripoli, attraverso molti e lunghi viaggi, e sempre avevano portati con sé gli strumenti del mestiere, e la batteria di cucina, e le fisarmoniche e il violino per suonare e ballare dopo la giornata di lavoro, perché erano gente lieta e pia. Le loro donne furono le prime fra tutte a sbrigare i preparativi per il viaggio, silenziose e rapide, affinché avanzasse tempo per il lutto; e quando tutto fu pronto, le focacce cotte, i fagotti legati, allora si scalzarono, si sciolsero i capelli, e disposero al suolo le candele funebri, e le accesero secondo il costume dei padri, e sedettero a terra a cerchio per la lamentazione, e tutta notte pregarono e piansero. Noi sostammo numerosi davanti alla loro porta, e ci discese nell’anima, nuovo per noi, il dolore antico del popolo che non ha terra, il dolore senza speranza dell’esodo ogni secolo rinnovato

Fin da questo brano è possibile notare le caratteristiche dello stile di Levi: sobrio, asciutto, pieno di pathos. I periodi si fondano sulla paratassi, cioè sull’accostamento di frasi brevi e sulle figure della ripetizione.

Lo scrittore  costruisce il racconto per microepisodi. Qui ne abbiamo due. Nella scena delle madri che accudiscono i piccoli l’intensificarsi del pathos è ottenuto con il susseguirsi delle “e”, che scandiscono  la successione delle cure materne. Anche nella scena seguente torna il polisindeto con effetto analogo:  la descrizione che addensa oggetti, gesti,riti, depositari di antiche tradizioni dà rilievo al dolore del popolo che la storia costringe ad un eterno esilio. La famiglia Gattegno, sbrigati i preparativi per il viaggio, riesce a trovare il tempo per affrontare  con dignità il lutto.

In viaggio verso l’inferno

Da Fossoli i prigionieri vengono trasferiti su torpedoni alla stazione di Carpi, dove vengono stipati in carri bestiame, dodici per seicentocinquanta persone, “vagoni merci, chiusi dall’esterno. E dentro uomini donne bambini, compressi senza pietà, come merce di dozzina, in viaggio verso il nulla, in viaggio all’ingiù, verso il fondo” (Op.cit. p.13).

 Ha inizio il viaggio che dura quattro giorni e quattro notti; i detenuti hanno un’anticipazione significativa di quello che li aspetta.

TESTO

 (Op. cit..15)

Soffrivamo per la sete e il freddo: a tutte le fermate chiedevamo acqua a gran voce, o almeno un pugno di neve, ma raramente fummo uditi; i soldati della scorta allontanavano chi tentava di avvicinarsi al convoglio. Due giovani madri, coi figli ancora al seno, gemevano notte e giorno implorando acqua. Meno tormentose erano per tutti la fame, la fatica e l’insonnia, rese meno penose dalla tensione dei nervi: ma le notti erano incubi senza fine.

Giunti a destinazione

La prima selezione

Il convoglio giunge di notte ad Auschwitz e già sulla banchina della stazione comincia la inumana pratica della ” selezione”, cioè della scelta del destino dei prigionieri, affidata non solo a criteri di utilità dei tedeschi, cioè alla distinzione tra vecchi e giovani, uomini e donne, sani e malati, ma anche al caso.

TESTO

( Op. cit. pp. 16-17)

Una decina di SS stavano in disparte, l’aria indifferente, piantati a gambe larghe.
A un certo momento, penetrarono fra di noi, e, con voce sommessa, con visi di pietra, presero a interrogarci rapidamente, uno per uno, in cattivo italiano. Non interrogavano tutti, solo qualcuno. «Quanti anni? Sano o malato?» e in base alla risposta ci indicavano due diverse direzioni.

Tutto era silenzioso come in un acquario, e come in certe scene di sogni. Ci saremmo attesi qualcosa di più apocalittico: sembravano semplici agenti d’ordine. Era sconcertante e disarmante. Qualcuno osò chiedere dei bagagli: risposero «bagagli dopo»; qualche altro non voleva lasciare la moglie: dissero «dopo di nuovo insieme»; molte madri non volevano separarsi dai figli: dissero «bene bene, stare con figlio». Sempre con la pacata sicurezza di chi non fa che il suo ufficio di ogni giorno; ma Renzo indugiò un istante di troppo a salutare Francesca, che era la sua fidanzata, e allora con un solo colpo in pieno viso lo stesero a terra; era il loro ufficio di ogni giorno.

In meno di dieci minuti tutti noi uomini validi fummo radunati in un gruppo. Quello che accadde degli altri, delle donne, dei bambini, dei vecchi, noi non potemmo stabilire allora né dopo: la notte li inghiottì, puramente e semplicemente. Oggi però sappiamo che in quella scelta rapida e sommaria, di ognuno di noi era stato giudicato se potesse o no lavorare utilmente per il Reich; sappiamo che nei campi rispettivamente di Buna-Monowitz e Birkenau, non entrarono, del nostro convoglio, che novantasei uomini e ventinove donne, e che di tutti gli altri, in numero di più di cinquecento, non uno era vivo due giorni più tardi. Sappiamo anche, che non sempre questo pur tenue principio di discriminazione in abili e inabili fu seguito, e che successivamente fu adottato spesso il sistema più semplice di aprire entrambe le portiere dei vagoni, senza avvertimenti né istruzioni ai nuovi arrivati. Entravano in campo quelli che il caso faceva scendere da un lato del convoglio; andavano in gas gli altri.

Così morì Emilia, che aveva tre anni; poiché ai tedeschi appariva palese la necessità storica di mettere a morte i bambini degli ebrei. Emilia, figlia dell’ingegner Aldo Levi di Milano, che era una bambina curiosa, ambiziosa, allegra e intelligente; alla quale, durante il viaggio nel vagone gremito, il padre e la madre erano riusciti a fare il bagno in un mastello di zinco, in acqua tiepida che il degenere macchinista tedesco aveva acconsentito a spillare dalla locomotiva che ci trascinava tutti alla morte. 

Scomparvero così, in un istante, a tradimento, le nostre donne, i nostri genitori, i nostri figli. Quasi nessuno ebbe modo di salutarli. Li vedemmo un po’ di tempo come una massa oscura all’altra estremità della banchina, poi non vedemmo più nulla.

 L’universo concentrazionario tedesco

Auschwitz è una cittadina polacca, che dista una settantina di chilometri da Cracovia. Il lager di Auschwitz era una specie di capitale dell’intero impero concentrazionario tedesco; era composto da una quarantina di campi e poteva contenere ventimila prigionieri. Le camere a gas e i forni crematori erano invece a  circa due chilometri, a Birkenau, dove si giunse al numero di sessantamila detenuti, in prevalenza donne. Collegati al lager di Auschwitz c’erano centinaia di altri campi, distanti anche centinaia di chilometri dal nucleo del sistema.

Primo Levi finisce a Mònowitz, il più grande dei campi di lavoro, situato a circa sette chilometri da Auschwitz; lì si sta costruendo una fabbrica denominata Buna, destinata a produrre gomma sintetica per fini bellici per conto di un’industria chimica tedesca: la I. G. Farben.

Il lager, infatti, oltre ad essere finalizzato a stroncare con il terrore la dissidenza politica, specie quella comunista, e a sterminare gli ebrei, aveva anche lo scopo di reclutare manodopera a costo zero per le necessità della guerra.  

La topografia del lager

Ecco la descrizione della pianta del lager. Nella sua geometria ossessiva è la visualizzazione della lucida follia pianificatrice dei nazisti.

TESTO

 Op. cit.pp. 30- 31)

Moltissime cose ci restano da imparare, ma molte le abbiamo già imparate. Già abbiamo una certa idea della topografia del Lager; questo nostro Lager è un quadrato di circa seicento metri di lato, circondato da due reticolati di filo spinato, il più interno dei quali è percorso da corrente ad alta tensione. È costituito da sessanta baracche in legno, che qui chiamano Blocks, di cui una decina in costruzione; a queste vanno aggiunti il corpo delle cucine, che è in muratura; una fattoria sperimentale, gestita da un distaccamento di Häftlinge privilegiati; le baracche delle docce e delle latrine, in numero di una per ogni gruppo di sei od otto Blocks. […].I comuni Blocks di abitazione sono divisi in due locali; in uno (Tagesraum) vive il capobaracca con i suoi amici: v’è un lungo tavolo, sedie, panche; ovunque una quantità di strani oggetti dai colori vivaci, fotografie, ritagli di riviste, disegni, fiori finti, soprammobili; sulle pareti, grandi scritte, proverbi e poesiole inneggianti all’ordine, alla disciplina, all’igiene; in un angolo, una vetrina con gli attrezzi del Blockfrisör (barbiere autorizzato), i mestoli per distribuire la zuppa e due nerbi di gomma, quello pieno e quello vuoto, per mantenere la disciplina medesima.

L’altro locale è il dormitorio; non vi sono che centoquarantotto cuccette a tre piani, disposte fittamente, come celle di alveare, in modo da utilizzare senza residui tutta la cubatura del vano, fino al tetto, e divise da tre corridoi; qui vivono i comuni Häftlinge, in numero di duecento-duecentocinquanta per baracca, due quindi in buona parte delle cuccette, le quali sono di tavole di legno mobili, provviste di un sottile sacco a paglia e di due coperte ciascuna. I corridoi di disimpegno sono così stretti che a stento ci si passa in due; la superficie totale di pavimento è così poca che gli abitanti di uno stesso Block non vi possono soggiornare tutti contemporaneamente se almeno la metà non sono coricati nelle cuccette. Di qui il divieto di entrare in un Block a cui non si appartiene.

Modalità  di degradazione dei prigionieri                     

Senza scarpe né vestiti, tosati e in piedi

All’arrivo nel lager i prigionieri sono subito sottoposti ad un trattamento di deumanizzazione, che si esplica in vari modi: vengono denudati, privati delle scarpe, tosati.

TESTO

(Op. cit.pp.20-21)

Non avevo mai visto uomini anziani nudi. Il signor Bergmann portava il cinto erniario, e chiese all’interprete se doveva posarlo, e l’interprete esitò.
Ma il tedesco comprese, e parlò seriamente all’interprete indicando qualcuno; abbiamo visto l’interprete trangugiare, e poi ha detto: – Il maresciallo dice di deporre il cinto, e che le sarà dato quello del signor Coen –. Si vedevano le parole uscire amare dalla bocca di Flesch, quello era il modo di ridere del tedesco.
Poi viene un altro tedesco, e dice di mettere le scarpe in un certo angolo, e noi le mettiamo, perché ormai è finito e ci sentiamo fuori del mondo e l’unica cosa è obbedire. Viene uno con la scopa e scopa via tutte le scarpe, via fuori dalla porta in un mucchio. E matto, le mescola tutte, novantasei paia, poi saranno spaiate.
La porta dà all’esterno, entra un vento gelido e noi siamo nudi e ci copriamo il ventre con le braccia. Il vento sbatte e richiude la porta; il tedesco la riapre, e sta a vedere con aria assorta come ci contorciamo per ripararci dal vento uno dietro l’altro; poi se ne va e la richiude.

Adesso è il secondo atto. Entrano con violenza quattro con rasoi, pennelli e tosatrici, hanno pantaloni e giacche a righe, un numero cucito sul petto; forse sono della specie di quegli altri di stasera (stasera o ieri sera?); ma questi sono robusti e floridi. Noi facciamo molte domande, loro invece ci agguantano e in quel momento ci troviamo rasi e tosati. Che facce goffe abbiamo senza capelli! I quattro parlano una lingua che non sembra di questo mondo, certo non è tedesco, io un poco il tedesco lo capisco.

Finalmente si apre un’altra porta: eccoci tutti chiusi, nudi tosati e in piedi, coi piedi nell’acqua, è una sala di docce. Siamo soli, a poco a poco lo stupore si scioglie e parliamo, e tutti domandano e nessuno risponde. Se siamo nudi in una sala di docce, vuol dire che faremo la doccia. Se faremo la doccia, è perché non ci ammazzano ancora. E allora perché ci fanno stare in piedi, e non ci danno da bere, e nessuno ci spiega niente, e non abbiamo né scarpe né vestiti ma siamo tutti nudi coi piedi nell’acqua, e fa freddo ed è cinque giorni che viaggiamo e non possiamo neppure sederci.

Il marchio

Ma il modo migliore per togliere all’uomo la sua identità è quello di privarlo del nome; d’ora in poi i detenuti saranno dei numeri ed all’appello risponderanno dicendo in tedesco (!) il proprio numero, il nuovo nome! E guai a fare errori!

Primo Levi non ha mai voluto farsi cancellare il tatuaggio: lo sentiva come parte integrante del proprio corpo  e testimonianza di un’esperienza condivisa con pochi altri al mondo.

TESTO

(Op. cit. p.25)

Häftling: ho imparato che io sono uno Häftling. Il mio nome è 174.517; siamo stati battezzati, porteremo finché vivremo il marchio tatuato sul braccio sinistro.

L’operazione è stata lievemente dolorosa, e straordinariamente rapida: ci hanno messi tutti in fila, e ad uno ad uno, secondo l’ordine alfabetico dei nostri nomi, siamo passati davanti a un abile funzionario munito di una specie di punteruolo dall’ago cortissimo.  Pare che questa sia l’iniziazione vera e propria: solo «mostrando il numero» si riceve il pane e la zuppa. Sono occorsi vari giorni, e non pochi schiaffi e pugni, perché ci abituassimo a mostrare il numero prontamente, in modo da non intralciare le quotidiane operazioni annonarie di distribuzione; ci son voluti settimane e mesi perché ne apprendessimo il suono in lingua tedesca. E per molti giorni, quando l’abitudine dei giorni liberi mi spinge a cercare l’ora sull’orologio a polso, mi appare invece ironicamente il mio nuovo nome, il numero trapunto in segni azzurrognoli sotto l’epidermide.

La perdita della riservatezza e del pudore

Tutte le attività e le azioni che l’uomo assolve nel privato vengono violentemente socializzate. Nel brano che segue viene descritta la svuotatura del secchio.

TESTO

(Op. cit.pp.64-65).

Devono essere passate le ventitre perché già è intenso l’andirivieni al secchio, accanto alla guardia di notte. È un tormento osceno e una vergogna indelebile: ogni due, ogni tre ore ci dobbiamo alzare, per smaltire la grossa dose di acqua che di giorno siamo costretti ad assorbire sotto forma di zuppa, per soddisfare la fame: quella stessa acqua che alla sera ci gonfia le caviglie e le occhiaie, impartendo a tutte le fisionomie una deforme rassomiglianza, e la cui eliminazione impone ai reni un lavoro sfibrante. 

Non si tratta solo della processione al secchio: è legge che l’ultimo utente del secchio medesimo vada a vuotarlo alla latrina; è legge altresì, che di notte non si esca dalla baracca se non in tenuta notturna (camicia e mutande), e consegnando il proprio numero alla guardia. Ne segue, prevedibilmente, che la guardia notturna cercherà di esonerare dal servizio i suoi amici, i connazionali e i prominenti; si aggiunga ancora che i vecchi del campo hanno talmente affinato i loro sensi che, pur restando nelle loro cuccette, sono miracolosamente in grado di distinguere, soltanto in base al suono delle pareti del secchio, se il livello è o no al limite pericoloso, per cui riescono quasi sempre a sfuggire alla svuotatura. Perciò i candidati al servizio del secchio sono, in ogni baracca, un numero assai limitato, mentre i litri complessivi da eliminare sono almeno duecento, e il secchio deve quindi essere vuotato una ventina di volte.

In conclusione, è assai grave il rischio che incombe su di noi, inesperti e non privilegiati, ogni notte, quando la necessità ci spinge al secchio. Improvvisamente la guardia di notte balza dal suo angolo e ci agguanta, si scarabocchia il nostro numero, ci consegna un paio si suole di legno e il secchio, e ci caccia fuori in mezzo alla neve, tremanti e insonnoliti. A noi tocca trascinarci fino alla latrina, col secchio che ci urta i polpacci nudi, disgustosamente caldo; è pieno oltre ogni limite ragionevole, e inevitabilmente, con le scosse, qualcosa ci trabocca sui piedi, talché, per quanto questa funzione sia ripugnante, è pur sempre preferibile esservi comandati noi stessi piuttosto che il nostro vicino di cuccetta     

La babele delle lingue

Tra le perdite a cui sono sottoposti i detenuti c’è anche la perdita della capacità di comunicare. Nel lager regna la confusione delle lingue, con le conseguenze immaginabili per i più sprovveduti.

“C’era una differenza enorme – afferma Levi – tra chi parlava il tedesco o il polacco e chi non lo parlava. Questo è stato per molti italiani un fattore di morte, l’esperienza di diventare improvvisamente sordomuti: scaraventati in un mondo alieno, persino il mezzo più normale di comunicazione veniva a cessare, quello di farsi capire e di capire” ( M. Vigevani, Op. cit. p.215)

TESTO

(Op. cit.pp.76-77)

La Buna è grande come una città; vi lavorano, oltre ai dirigenti e ai tecnici tedeschi, quarantamila stranieri, e vi si parlano quindici o venti linguaggi. Tutti gli stranieri abitano in vari Lager, che alla Buna fanno corona: il Lager dei prigionieri di guerra inglesi, il Lager delle donne ucraine, il Lager dei francesi volontari, e altri che noi non conosciamo. Il nostro Lager (Judenlager, Vernichtungslager, Kazett) fornisce da solo diecimila lavoratori, che vengono da tutte le nazioni d’Europa; e noi siamo gli schiavi degli schiavi, a cui tutti possono comandare, e il nostro nome è il numero che portiamo tatuato sul braccio e cucito sul petto.

La torre del Carburo, che sorge in mezzo alla Buna e la cui sommità è raramente visibile in mezzo alla nebbia, siamo noi che l’abbiamo costruita. I suoi mattoni sono stati chiamati Ziegel, briques, tegula, cegli, kamenny, bricks, téglak, e l’odio li ha cementati; l’odio e la discordia, come la Torre di Babele, e così noi la chiamiamo: Babelturm, Bobelturm; e odiamo in essa il sogno demente di grandezza dei nostri padroni, il loro disprezzo di Dio e degli uomini, di noi uomini.

Problemi di vita quotidiana

Per chi vive in una situazione di normalità è difficile immaginare quali problemi si creino a chi viene privato di strumenti e supporti che noi diamo per scontati, come forbici, ago, filo,scarpe, ecc.

TESTO

( Op. cit .pp. 33-34)

Di più, ci sono innumerevoli circostanze, normalmente irrilevanti, che qui diventano problemi. Quando le unghie si allungano, bisogna accorciarle, il che non si può fare altrimenti che coi denti (per le unghie dei piedi basta l’attrito delle scarpe); se si perde un bottone bisogna saperselo riattaccare con un filo di ferro; se si va alla latrina o al lavatoio, bisogna portarsi dietro tutto, sempre e dovunque, e mentre ci si lavano gli occhi, tenere il fagotto degli abiti stretto fra le ginocchia: in qualunque altro modo, esso in quell’attimo verrebbe rubato. Se una scarpa fa male bisogna presentarsi alla sera alla cerimonia del cambio delle scarpe: qui si mette alla prova la perizia dell’individuo, in mezzo alla calca incredibile bisogna saper scegliere con un colpo d’occhio una (non un paio: una) scarpa che vi si adatti, perché, fatta la scelta, un secondo cambio non è concesso.                

Né si creda che le scarpe, nella vita dei lager, costituiscano un fattore d’importanza secondaria. La morte incomincia dalle scarpe: esse si sono rivelate, per la maggior parte di noi, veri arnesi di tortura, che dopo poche ore di marcia davano luogo a piaghe dolorose che fatalmente si infettavano. Chi ne è colpito, è costretto a camminare come se avesse una palla al piede; arriva ultimo dappertutto, e dappertutto riceve botte; non può scappare se lo inseguono; i suoi piedi si gonfiano, e più si gonfiano, più l’attrito con il legno e la tela delle scarpe diventa insopportabile. Allora non resta che l’ospedale: ma entrare in ospedale con la diagnosi di «dicke Füsse» (piedi gonfi), è estremamente pericoloso, perché è ben noto a tutti, ed alle SS in ispecie, che di questo male, qui, non si può guarire.

La stupefacente capacità  d’adattamento dell’uomo

Ma l’uomo ha enormi risorse e una grande capacità di adattarsi anche alle situazioni estreme.

TESTO

 (Op. cit.pp.58-59)

La facoltà umana di scavarsi una nicchia, di secernere un guscio, di erigersi intorno una tenue barriera di difesa, anche in circostanze apparentemente disperate, è stupefacente, e meriterebbe uno studio approfondito. Si tratta di un prezioso lavorio di adattamento, in parte passivo e inconscio, e in parte attivo: di piantare un chiodo sopra la cuccetta per appendervi le scarpe di notte; di stipulare taciti patti di non aggressione coi vicini; di intuire e accettare le consuetudini e le leggi del singolo Kommando e del singolo Block. In virtù di questo lavoro, dopo qualche settimana si riesce a raggiungere un certo equilibrio, un certo grado di sicurezza di fronte agli imprevisti; ci si è fatto un nido, il trauma del travasamento è superato.

Ma l’uomo che esce dal Ka-Be, nudo e quasi sempre insufficientemente ristabilito, si sente proiettato nel buio e nel gelo dello spazio siderale. I pantaloni gli cascano di dosso, le scarpe gli fanno male, la camicia non ha bottoni. Cerca un contatto umano, e non trova che schiene voltate. È inerme e vulnerabile come un neonato, eppure al mattino dovrà marciare al lavoro.

L’arte di vivere nel campo

Ecco quello che i prigionieri hanno imparato presto.

TESTO

(Op. cit.32)

Ed altro ancora abbiamo imparato, più o meno rapidamente, a seconda del carattere di ciascuno; a rispondere «Jawohl », a non fare mai domande, a fingere sempre di avere capito. Abbiamo appreso il valore degli alimenti; ora anche noi raschiamo diligentemente il fondo della gamella dopo il rancio, e la teniamo sotto il mento quando mangiamo il pane per non disperderne le briciole. Anche noi adesso sappiamo che non è la stessa cosa ricevere il mestolo di zuppa prelevato dalla superficie o dal fondo del mastello, e siamo già in grado di calcolare, in base alla capacità dei vari mastelli, quale sia il posto più conveniente a cui aspirare quando ci si mette in coda. Abbiamo imparato che tutto serve; il fil di ferro, per legarsi le scarpe; gli stracci, per ricavarne pezze da piedi; la carta, per imbottirsi (abusivamente) la giacca contro il freddo. Abbiamo imparato che d’altronde tutto può venire rubato, anzi, viene automaticamente rubato non appena l’attenzione si rilassa; e per evitarlo abbiamo dovuto apprendere l’arte di dormire col capo su un fagotto fatto con la giacca, e contenente tutto il nostro avere, dalla gamella alle scarpe.

Conosciamo già in buona parte il regolamento del campo, che è favolosamente complicato. Innumerevoli sono le proibizioni: avvicinarsi a meno di due metri dal filo spinato; dormire con la giacca, o senza mutande, o col cappello in testa; servirsi di particolari lavatoi e latrine che sono «nur für Kapos» o «nur für Reichsdeutsche»; non andare alla doccia nei giorni prescritti, e andarvi nei giorni non prescritti; uscire di baracca con la giacca sbottonata, o col bavero rialzato; portare sotto gli abiti carta o paglia contro il freddo; lavarsi altrimenti che a torso nudo.

 Perchè  lavarsi

Lavarsi nel lager è un’operazione estremamente difficile e apparentemente inutile. Anche Primo sembra pensarlo, ma Steinlauf, sergente dell’esercito austro- ungarico nella guerra del ’14-18 (si badi bene, un ex nemico dell’Italia!) gli impartisce una lezione di vita che Levi è pronto ad accogliere.

TESTO

(Op. cit. pp.39-41)                    

In questo luogo, lavarsi tutti i giorni nell’acqua torbida del lavandino immondo è praticamente inutile ai fini della pulizia e della salute; è invece importantissimo come sintomo di residua vitalità, e necessario come strumento di sopravvivenza morale.

Devo confessarlo: dopo una sola settimana di prigionia, in me l’istinto della pulizia è sparito. Mi aggiro ciondolando per il lavatoio, ed ecco Steinlauf, il mio amico quasi cinquantenne, che si strofina collo e spalle con scarso esito (non ha sapone) ma con estrema energia. Steinlauf mi vede e mi saluta, e senza ambagi mi domanda severamente perché non mi lavo. Perché dovrei lavarmi? Starei forse meglio di quanto sto? Piacerei di più a qualcuno? Vivrei un giorno, un’ora in più? Vivrei anzi di meno, perché lavarsi è un lavoro, uno spreco di energia e di calore. Non sa Steinlauf che dopo mezz’ora ai sacchi di carbone ogni differenza fra lui e me sarà scomparsa? Più ci penso, e più mi pare che lavarsi la faccia nelle nostre condizioni sia una faccenda insulsa, addirittura frivola: un’abitudine meccanica, o peggio, una lugubre ripetizione di un rito estinto. Morremo tutti, stiamo per morire: se mi avanzano dieci minuti fra la sveglia e il lavoro, voglio dedicarli ad altro, chiudermi in me stesso, a tirare le somme, o magari a guardare il cielo e a pensare che lo vedo forse per l’ultima volta; o anche solo a lasciarmi vivere, a concedermi il lusso di un minuscolo ozio.

Ma Steinlauf mi dà sulla voce. Ha terminato di lavarsi, ora si sta asciugando con la giacca di tela che prima teneva arrotolata tra le ginocchia e che poi infilerà, e senza interrompere l’azione mi somministra una lezione in piena regola.

Ho scordato ormai, e me ne duole,  le sue parole dritte e chiare, le parole del già sergente Steinlauf dell’esercito austro­-ungarico, croce di ferro della guerra ‘14-18.
Me ne duole, perchè dovrò tradurre il suo italiano incerto e il suo discorso piano di buon soldato nel mio linguaggio di uomo incredulo. Ma questo ne era il senso, non dimenticato allora nè poi: che appunto perchè il Lager è una gran macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare; che anche in questo luogo si può sopravvivere, e perciò si deve voler sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza; e che per vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà. Che siamo schiavi, privi di ogni diritto, esposti a ogni offesa, votati a morte quasi certa, ma che una facoltà ci è rimasta, e dobbiamo difenderla con ogni vigore perché è l’ultima: la facoltà di negare il nostro consenso. Dobbiamo quindi, certamente, lavarci la faccia senza sapone, nell’acqua sporca, e asciugarci nella giacca. Dobbiamo dare il nero alle scarpe, non perché così prescrive il regolamento, ma per dignità e proprietà. Dobbiamo camminare dritti, senza strascicare gli zoccoli, non già in omaggio alla disciplina prussiana, ma per restare vivi, per non cominciare a morire.  

Come si lavora nel lager

Quelle descritte nel brano seguente sono le “normali” condizioni di lavoro nel lager.

TESTO

(Op. cit. pp. 69-71)

Quando siamo arrivati al cantiere, ci hanno condotti alla Eisenröhreplatz, che è la spianata dove si caricano i tubi di ferro, e poi hanno cominciato ad avvenire le solite cose. Il Kapo ha rifatto l’appello, ha preso brevemente atto del nuovo acquisto, si è accordato col Meister civile sul lavoro di oggi. Poi ci ha affidati al Vorarbeiter e se ne è andato a dormire nella capanna degli attrezzi, vicino alla stufa ; questo non è un kapo che dia noia, perché non è ebreo e non ha paura di perdere il posto.
Il Vorarbeiter ha distribuito le leve di ferro a noi e le binde ai suoi amici; è avvenuta la solita piccola lotta per conquistare le leve più leggere, e oggi a me è andata male, la mia è quella storta, che pesa forse quindici chili; so che, se anche la dovessi adoperare a vuoto, dopo mezz’ora sarò morto di fatica.

Poi ce ne siamo andati, ciascuno con la sua leva, zoppicando nella neve in disgelo. A ogni passo, un po’ di neve e di fango aderiscono alle nostre suole di legno, finché si cammina instabili su due pesanti ammassi informi di cui non ci si riesce a liberare; a un tratto uno si stacca, e allora è come se una gamba fosse un palmo più corta dell’altra.

Oggi bisogna scaricare dal vagone un enorme cilindro di ghisa: credo che sia un tubo di sintesi, peserà parecchie tonnellate. Per noi è meglio così, perché notoriamente si fatica di meno coi grandi carichi che coi piccoli; infatti il lavoro è più suddiviso e ci vengono concessi attrezzi adeguati; però siamo in pericolo, non bisogna mai distrarsi, basta una svista di un attimo e si può essere travolti.
Meister Nogalla in persona, il capomastro polacco, rigido serio e taciturno, ha sorvegliato l’operazione di scarico. Ora il cilindro giace al suolo e Meister Nogalla dice: – Bohlen holen.

A noi si svuota il cuore. Vuol dire «portare traversine» per costruire nel fango molle la via su cui il cilindro verrà sospinto colle leve fin dentro la fabbrica. Ma le traversine sono incastrate nel terreno, e pesano ottanta chili; sono all’incirca al limite delle nostre forze. I più robusti di noi possono, lavorando in coppia, portare traversine per qualche ora; per me è una tortura, il carico mi storpia l’osso della spalla, dopo il primo viaggio sono sordo e quasi cieco per lo sforzo, e commetterei qualunque bassezza per sottrarmi al secondo.

Proverò a mettermi in coppia con Resnyk, che pare un buon lavoratore, e inoltre, essendo di alta statura, verrà a sopportare la maggior parte del peso. So che è nell’ordine delle cose che Resnyk mi rifiuti con disprezzo, e si metta in coppia con un altro individuo robusto; e allora io chiederò di andare alla latrina, e ci starò il più a lungo possibile, e poi cercherò di nascondermi con la certezza di essere immediatamente rintracciato, deriso e percosso; ma tutto è meglio di questo lavoro.

Invece no: Resnyk accetta, non solo, ma solleva da solo la traversina e me l’appoggia sulla spalla destra con precauzione; poi alza l’altra estremità, vi pone sotto la spalla sinistra e partiamo.

La traversina è incrostata di neve e di fango, a ogni passo mi batte contro l’orecchio e la neve mi scivola nel collo. Dopo una cinquantina di passi sono al limite di quanto si suole chiamare normale sopportazione: le ginocchia si piegano, la spalla duole come stretta in una morsa, l’equilibrio è in pericolo. A ogni passo sento le scarpe succhiate dal fango avido, da questo fango polacco onnipresente il cui orrore monotono riempie le nostre giornate.

Nella buca di fango

Ecco come diventano le condizioni di lavoro  quando piove.

TESTO

( Op. cit.pp.142-143)

Quando piove si vorrebbe poter piangere. È novembre, piove già da dieci giorni, e la terra è come il fondo di una palude. Ogni cosa di legno ha odore di funghi.

Se potessi fare dieci passi a sinistra, c’è la tettoia, sarei al riparo; mi basterebbe anche un sacco per coprirmi le spalle, o solamente la speranza di un fuoco dove asciugarmi; o magari un cencio asciutto da mettermi fra la camicia e la schiena. Ci penso, fra un colpo di pala e l’altro, e credo proprio che avere un cencio asciutto sarebbe felicità positiva.

Ormai più bagnati non si può diventare; solo bisogna cercare di muoversi il meno possibile, e soprattutto di non fare movimenti nuovi, perché non accada che qualche altra porzione di pelle venga senza necessità a contatto con gli abiti zuppi e gelidi.

È fortuna che oggi non tira vento. Strano, in qualche modo si ha sempre l’impressione di essere fortunati, che una qualche circostanza, magari infinitesima, ci trattenga sull’orlo della disperazione e ci conceda di vivere. Piove, ma non tira vento. Oppure, piove e tira vento: ma sai che stasera tocca a te il supplemento di zuppa, e allora anche oggi trovi la forza di tirar sera. O ancora, pioggia, vento, e la fame consueta, e allora pensi che se proprio dovessi, se proprio non ti sentissi più altro nel cuore che sofferenza e noia, come a volte succede, che pare veramente di giacere sul fondo; ebbene, anche allora noi pensiamo che se vogliamo, in qualunque momento, possiamo pur sempre andare a toccare il reticolato elettrico, o buttarci sotto i treni in manovra, e allora finirebbe di piovere.

Da stamattina stiamo confitti nella melma, a gambe larghe, senza mai muovere i piedi dalle due buche che si sono scavati nel terreno vischioso; oscillando sulle anche a ogni colpo di pala. Io sono a metà dello scavo; Kraus e Clausner sono sul fondo, Gounan sopra di me, a livello del suolo. Solo Gounan può guardarsi intorno, e a monosillabi avvisa ogni tanto Kraus dell’opportunità di accelerare il ritmo, o eventualmente di riposarsi, a seconda di chi passa per la strada. Clausner piccona, Kraus alza la terra a me palata per palata, e io a mano a mano la alzo a Gounan che la ammucchia a lato. Altri fanno la spola con le carriole e portano la terra chissà dove, non ci interessa, oggi il nostro mondo è questa buca di fango.

Il terrore della selekcja

Su un tipo di vita così degradata incombe sistematicamente il terrore della selekcja, la selezione. L’atmosfera, le immagini, il lessico evocano scene dell’inferno dantesco, in particolare la scena in cui le anime stanno di fronte a Minosse e attendono terrorizzate la sentenza che deciderà del loro destino eterno!

TESTO

 (Op. cit. p.134)

Le selezioni si sentono arrivare. «Selekcja»: la ibrida parola latina e polacca si sente una volta, due volte, molte volte, intercalata in discorsi stranieri; dapprima non la si individua, poi si impone all’attenzione, infine ci perseguita.

 (Op. cit. p.137  )

Oggi è domenica lavorativa, Arbeitssonntag: si lavora fino alle tredici, poi si ritorna in campo per la doccia, la rasatura e il controllo generale della scabbia e dei pidocchi, e in cantiere, misteriosamente, tutti abbiamo saputo che la selezione sarà oggi.

 (Op. cit.pp.138-140)

Già molti sonnecchiano, quando uno scatenarsi di comandi, di bestemmie e di colpi indica che la commissione è in arrivo. Il Blockältester e i suoi aiutanti, a pugni e a urli, a partire dal fondo del dormitorio, si cacciano davanti la turba dei nudi spaventari, e li stipano dentro il Tagesraum, che è la Direzione-Fureria. Il Tagesraum è una cameretta di sette metri per quattro: quando la caccia è finita, dentro il Tagesraum è compressa una compagine umana calda e compatta, che invade e riempie perfettamente tutti gli angoli ed esercita sulle pareti di legno una pressione tale da farle scricchiolare.

Ora siamo tutti nel Tagesraum, e, oltre che non esserci tempo, non c’è neppure posto per avere paura. La sensazione della carne calda che preme tutto intorno è singolare e non spiacevole. Bisogna aver cura di tener alto il naso per trovare aria, e di non spiegazzare o perdere la scheda che teniamo in mano.

Il Blockältester ha chiuso la porta Tagesraum-dormitorio e ha aperto le altre due che dal Tagesraum e dal dormitorio dànno all’esterno. Qui, davanti alle due porte, sta l’arbitro del nostro destino, che è un sottuffìciale delle SS. Ha a destra il Blockältesrer, a sinistra il furiere della baracca. Ognuno di noi, che esce nudo dal Tagesraum nel freddo dell’aria di ottobre, deve fare di corsa i pochi passi fra le due porte davanti ai tre, consegnare la scheda alla SS e rientrare per la porta del dormitorio. La SS, nella frazione di secondo fra due passaggi successivi, con uno sguardo di faccia e di schiena giudica della sorte di ognuno, e consegna a sua volta la scheda all’uomo alla sua destra o all’uomo alla sua sinistra, e questo è la vita o la morte di ciascuno di noi. In tre o quattro minuti una baracca di duecento uomini è «fatta», e nel pomeriggio l’intero campo di dodicimila uomini.

Io confitto nel carnaio del Tagesraum ho sentito gradualmente allentarsi la pressione umana intorno a me, e in breve è stata la mia volta. Come tutti, sono passato con passo energico ed elastico, cercando di tenere la testa alta, il petto in fuori e i muscoli contratti e rilevati. Con la coda dell’occhio ho cercato di vedere alle mie spalle, e mi è parso che la mia scheda sia finita a destra.

A mano a mano che rientriamo nel dormitorio, possiamo rivestirci. Nessuno conosce ancora con sicurezza il proprio destino, bisogna anzitutto stabilire se le schede condannate sono quelle passate a destra o a sinistra. Ormai non è più il caso di risparmiarsi l’un l’altro e di avere scrupoli superstiziosi. Tutti si accalcano intorno ai più vecchi, ai più denutriti, ai più «mussulmani»; se le loro schede sono andate a sinistra, la sinistra è certamente il lato dei condannati.

Prima ancora che la selezione sia terminata, tutti già sanno che la sinistra è stata effettivamente la «schlechte Seite», il lato infausto. Ci sono naturalmente delle irregolarità: René per esempio, così giovane e robusto, è finito a sinistra: forse perché ha gli occhiali, forse perché cammina un po’ curvo come i miopi, ma più probabilmenre per una semplice svista: René è passato davanti alla commissione immediatamente prima di me, e potrebbe essere avvenuto uno scambio di schede. Ci ripenso, ne parlo con Alberto, e conveniamo che l’ipotesi è verosimile: non so cosa ne penserò domani e poi; oggi essa non desta in me alcuna emozione precisa.

Parimenti di un errore deve essersi trattato per Sattler, un massiccio contadino transilvano che venti giorni fa era ancora a casa sua; Sattler non capisce il tedesco, non ha compreso nulla di quel che è successo e sta in un angolo a rattopparsi la camicia. Devo andargli a dire che non gli servirà più la camicia?

Non c’è da stupirsi di queste sviste: l’esame è molto rapido e sommario, e d’altronde, per l’amministrazione del Lager, l’importante non è tanto che vengano eliminati proprio i più inutili, quanto che si rendano speditamente liberi posti in una certa percentuale prestabilita.         

È saggezza nel lager non pensare al futuro

Ma alle tecniche di sopravvivenza fisica vanno unite quelle di sopravvivenza morale. Tra queste è necessaria la capacità di non angosciarsi ad anticipare il futuro.

TESTO

 ( Op. cit.p.125)

L’esperienza ci aveva già dimostrato infinite volte la vanità di ogni previsione: a che scopo travagliarsi per prevedere I’avvenire, quando nessun nostro atto, nessuna nostra parola lo avrebbe potuto minimamente influenzare?

Eravamo dei vecchi Häftlinge: la nostra saggezza era il «non cercar di capire», non rappresentarsi il futuro, non tormentarsi sul come e sul quando tutto sarebbe finito: non porre e non porsi domande.

L’esame di chimica

Nel lager ad un certo momento viene istituito un Kommando Chimico; a gestirlo viene messo Alex, un triangolo verde, cioè un delinquente comune, un kapò non ebreo. Tra quelli che operavano nei campi i Kapò erano tra le figure più negative: erano prigionieri, a volte persino ebrei, scelti dai capi per sorvegliare gli altri; si trattava di una posizione di rendita e privilegi per mantenere i quali il kapò compiva molte crudeltà contro gli compagni di sventura. A volte i kapò riuscivano a mediare tra le due parti e a mitigare la condizione dei detenuti, ma per lo più agivano crudelmente. Alex apparteneva alla peggior specie di Kapò.

Si presentano quindici prigionieri, tra cui Levi, che si professano chimici, ma il Kommando decide di sottoporre i candidati ad un esame per accertare se sono realmente in possesso delle conoscenze dichiarate.

L’esame sarà sostenuto davanti a un triunvirato: il Doktor Hagen, il Doktor Probst, il Doktor Ingenieur Pannwitz.

L’emozione e la preoccupazione di Levi sono grandi. Il contrasto tra le condizioni di vita dei detenuti del lager e le condizioni di un esame che di solito si svolge in una situazione di vita civile è stridente.

TESTO

 ( Op. cit. p.111)

Con queste nostre facce vuote, con questi crani tosati, con questi abiti di vergogna, fare un esame di chimica. E sarà in tedesco, evidentemente; e dovremo comparire davanti a un qualche biondo Ario Doktor sperando che non dovremo soffiarci il naso, perché forse lui non saprà che noi non possediamo fazzoletto, e non si potrà certo spiegarglielo. E avremo addosso la nostra vecchia compagna fame, e stenteremo a stare immobili sulle ginocchia, e lui sentirà certamente questo nostro odore, a cui ora siamo avvezzi, ma che ci perseguitava i primi giorni: l’odore delle rape e dei cavoli crudi cotti e digeriti.

Ed ecco il giorno dell’esame. I candidati si sono ridotti a sette; gli altri otto o si sono autoesclusi o sono stati esclusi per ragioni non ben chiare.

Primo viene introdotto da Alex di fronte all’esaminatore, il Doktor Pannwitz, alto, magro, biondo, occhi azzurri ,mani curate, un tipico rappresentante della razza indogermanica – pensa tra sé e sé l’esaminato; gli piacerebbe capire il significato dello sguardo che l’esaminatore gli rivolge, quello che pensa, per capire l’essenza della follia del terzo Reich, ma l’uomo è indecifrabile.

Nell’insolita situazione Levi fa appello a tutte le residue energie;  ritrova le sue conoscenze di studente universitario, la sua capacità logica, la sua dignità di essere umano: “ mi pare di crescere di statura”.

L’esame è andato bene. D’ora in poi la vita di Levi migliorerà: il lavoro sarà meno pesante e si svolgerà al chiuso.

TESTO

 ( Op. cit.pp.113-116)

La porta si è aperta. I tre dottori hanno deciso che sei candidati passeranno in mattinata. Il settimo no. Il settimo sono io, ho il numero di matricola più elevato, mi tocca ritornare al lavoro. Solo nel pomeriggio viene Alex a prelevarmi; che disdetta, non potrò neppure comunicare cogli altri per sapere «che domande fanno».

Questa volta ci siamo proprio. Per le scale, Alex mi guarda torvo, si sente in qualche modo responsabile del mio aspetto miserevole. Mi vuol male perché sono italiano, perché sono ebreo e perché, fra tutti, sono quello che più si scosta dal suo caporalesco ideale virile. Per analogia, pur senza capirne nulla, e di questa sua incompetenza essendo fiero, ostenta una profonda sfiducia nelle mie probabilità per l’esame.

Siamo entrati. C’è solo il Doktor Pannwitz, Alex, col berretto in mano, gli parla a mezza voce:  –  … un italiano, in Lager da tre mesi soltanto, già mezzo kaputt… … Er sagt er ist Chemiker… – ma lui AIex sembra su questo faccia le sue riserve.

Alex viene brevemente congedato e relegato da parte, ed io mi sento come Edipo davanti alla Sfinge. Le mie idee sono chiare, e mi rendo conto anche in questo momento che la posta in gioco è grossa; eppure provo un folle impulso a scomparire, a sottrarmi alla prova.

Pannwitz è alto, magro, biondo; ha gli occhi, i capelli e il naso come tutti i tedeschi devono averli, e siede formidabilmente dietro una complicata scrivania. Io, Häftling 174 517, sto in piedi nel suo studio che è un vero studio, lucido pulito e ordinato, e mi pare che lascerei una macchia sporca dovunque dovessi toccare.

Quando ebbe finito di scrivere, alzò gli occhi e mi guardò.

Da quel giorno, io ho pensato al Doktor Pannwitz molte volte e in molti modi. Mi sono domandato quale fosse il suo intimo funzionamento di uomo; come riempisse il suo tempo, all’infuori della Polimerizzazione e della coscienza indogermanica; sopratturro, quando io sono stato di nuovo un uomo libero, ho desiderato di incontrarlo ancora, e non già per vendetta, ma solo per una mia curiosità dell’anima umana.

Perché quello sguardo non corse fra due uomini; e se io sapessi spiegare a fondo la natura di quello sguardo, scambiato come attraverso la parete di vetro di un acquario tra due esseri che abitano mezzi diversi, avrei anche spiegato l’essenza della grande follia della terza Germania.

Quello che tutti noi dei tedeschi pensavamo e dicevamo si percepì in quel momento in modo immediato. Il cervello che sovrintendeva a quegli occhi azzurri e a quelle mani coltivate diceva: «Questo qualcosa davanti a me appartiene a un genere che è ovviamenre opportuno sopprimere. Nel caso particolare, occorre prima accertarsi che non contenga qualche elemento utilizzabile». E nel mio capo, come semi in una zucca vuota: «Gli occhi azzurri e i capelli biondi sono essenzialmente malvagi. Nessuna comunicazione possibile. Sono specializzato in chimica mineraria. Sono specializzato in sintesi organiche. Sono specializzato…».

Ed incominciò l’interrogatorio, mentre nel suo angolo sbadigliava e digrignava Alex, terzo esemplare zoologico.

 – Wo sind Sie geboren? – mi dà del Sie, del lei: il Doktor Ingenieur Pannwitz non ha il senso dell’umorismo. Che sia maledetto, non fa il minimo sforzo per parIare un tedesco un po’ comprensibile.

– Mi sono laureato aTorino nel 1941, summa cum laude, – e, mentre lo dico, ho la precisa sensazione di non esser creduto, a dire il vero non ci credo io stesso, basta guardare le mie mani sporche e piagate, i pantaloni da forzato incrostati di fango. Eppure sono proprio io, il laureato di Torino, anzi, particolarmente in questo momento è impossibile dubitare della mia identità con lui, infatti il serbatoio dei ricordi di chimica organica, pur dopo la lunga inerzia, risponde alla richiesta con inaspettata docilità; e ancora, questa ebrietà lucida, questa esaltazione che mi sento calda per le vene, come la riconosco, è la febbre degli esami, la mia febbre dei miei esami, quella spontanea mobilitazione di tutte le facoltà logiche e di tutte le nozioni che i miei compagni di scuola tanto mi invidiavano.

L’esame sta andando bene. A mano a mano che me ne rendo conto, mi pare di crescere di statura. Ora mi chiede su quale argomento ho fatto la tesi di laurea. Devo fare uno sforzo violento per suscitare queste sequenze di ricordi così profondamente lontane: è come se cercassi di ricordare gli avvenimenti di una incarnazione anteriore.

Qualcosa mi protegge. Le mie povere vecchie Misure di costanti dielettriche interessano particolarmente questo ariano biondo dalla esistenza sicura: mi chiede se so l’inglese, mi mostra il testo del Gattermann, e anche questo è assurdo e inverosimile, che quaggiù, dall’altra parte del filo spinato, esista un Gattermann in tutto identico a quello su cui studiavo in ltalia, in quarto anno, a casa mia.

Adesso è finito: l’eccitazione che mi ha sostenuto lungo tutta la prova cede d’un tratto ed io contemplo istupidito e atono la mano di pelle bionda che, in segni incomprensibili, scrive il mio destino sulla pagina bianca.

L’AMICIZIA

Primo Levi ritiene di dovere la sua sopravvivenza “principalmente” alla fortuna ed è senz’altro vero che la fortuna lo ha aiutato, ma Levi deve la salvezza anche alla sua tempra morale, alla capacità di conservare i suoi valori, di provare ancora sentimenti positivi come l’amicizia, di suscitarli, di ricambiarli. Nel libro si incontrano belle figure di amici.

Lorenzo

Lorenzo è l’operaio che ha aiutato Levi con del cibo supplementare. Lo scrittore lo definisce con due aggettivi: “buono e semplice”. Il suo agire è disinteressato.

Levi lo ricorda, con molta gratitudine, in altri suoi scritti, affermando che deve a lui la sua sopravvivenza.

TESTO 

( Op. cit. p.129)

In questo mondo scosso ogni giorno più profondamente dai fremiti della fine vicina, fra nuovi terrori e speranze e intervalli di schiavitù esacerbata, mi accadde di incontrare Lorenzo.

La storia della mia relazione con Lorenzo è insieme lunga e breve, piana ed enigmatica; essa è una storia di un tempo e di una condizione ormai cancellati da ogni realtà presente, e perciò non credo che potrà essere compresa altrimenti di come si comprendono oggi i fatti della leggenda e della storia più remota.

In termini concreti, essa si riduce a poca cosa: un operaio civile italiano mi portò un pezzo di pane e gli avanzi del suo rancio ogni giorno per sei mesi; mi donò una sua maglia piena di toppe; scrisse per me in Italia una cartolina, e mi fece avere la risposta. Per tutto questo, non chiese né accettò alcun compenso, perché era buono e semplice, e non pensava che si dovesse fare il bene per un compenso.

Alberto

Alberto è quello con cui Primo Levi ha stretto l’amicizia più salda. Si tratta di Alberto…..

Ecco il suo ritratto. Anche per definire Alberto lo scrittore usa coppie di aggettivi e di sostantivi: “illeso e incorrotto”, “intelligenza e istinto”, “forte e mite”.

TESTO

(Op. cit. pp.59-60) 

Alberto è il mio migliore amico. Non ha che ventidue anni, due meno di me, ma nessuno di noi italiani ha dimostrato capacità di adattamento simili alle sue. Alberto è entrato in Lager a testa alta, e vive in Lager illeso e incorrotto. Ha capito prima di tutti che questa vita è guerra; non si è concesso indulgenze, non ha perso tempo a recriminare e a commiserare sé e gli altri, ma fin dal primo giorno è sceso in campo. Lo sostengono intelligenza e istinto: ragiona giusto, spesso non ragiona ed è ugualmente nel giusto. Intende tutto a volo: non sa che poco francese, e capisce quanto gli dicono tedeschi e polacchi. Risponde in italiano e a gesti, si fa capire e subito riesce simpatico. Lotta per la sua vita, eppure è amico di tutti. « Sa» chi bisogna corrompere, chi bisogna evitare, chi si può impietosire, a chi si deve resistere. Eppure (e per questa sua virtù oggi ancora la sua memoria mi è cara e vicina) non è diventato un tristo. Ho sempre visto, e ancora vedo in lui, la rara figura dell’uomo forte e mite, contro cui si spuntano le armi della notte.

Il ritratto di Alberto viene ripreso e rifinito successivamente: Primo ha superato l’esame di chimica  e Alberto, esente da qualsiasi forma d’invidia, gioisce per lui.

TESTO    

( Op. cit. p.150)

Molti compagni si congratulano; primo fra tutti Alberto, con genuina gioia, senza ombra d’invidia. Alberto non trova nulla a ridire sulla fortuna che mi è toccata, e ne è anzi ben lieto, sia per amicizia, sia perché ne trarrà lui pure dei vantaggi: infatti noi due siamo ormai legati da uno strettissimo patto di alleanza, per cui ogni boccone «organizzato» viene diviso in due parti rigorosamente uguali. Non ha motivo di invidiarmi, poiché entrare in Laboratorio non rientrava né nelle sue speranze, né pure nei suoi desideri. Il sangue delle sue vene è troppo libero perché Alberto, il mio amico non domato, pensi di adagiarsi in un sistema; il suo istinto lo porta altrove, verso altre soluzioni, verso l’imprevisto, l’estemporaneo, il nuovo. A un buon impiego, Alberto preferisce senza esitare gli incerti e le battaglie della «libera professione».

Ed ecco il momento in cui i due si separano per non rivedersi più. I russi hanno bombardato la Buna e i tedeschi sono costretti a fuggire senza potersi organizzare.

Primo , che ha avuto la fortuna di ammalarsi di scarlattina, resta nell’infermeria con ottocento malati. Alberto, invece, farà parte della folla di ventimila disperati trascinati dai nazisti nella marcia, nel corso della quale troveranno la morte.

Alberto viene a salutare Primo e se ne va.

TESTO

(Op. cit.pp.168-169)                                                                                                                                 

E venne finalmente Alberto, sfidando il divieto, a salutarmi dalla finestra. Era il mio indivisibile: noi eravamo «i due italiani», e per lo più i compagni stranieri confondevano i nostri nomi. Da sei mesi dividevamo la cuccetta, e ogni grammo di cibo organizzato extra razione; ma lui aveva superata la scarlattina da bambino, e io non avevo quindi potuto contagiarlo. Perciò lui partì e io rimasi. Ci salutammo, non occorrevano molte parole, ci eravamo dette tutte le nostre cose già infinite volte. Non credevamo che saremmo rimasti a lungo separati. Aveva trovato grosse scarpe di cuoio, in discreto stato: era uno di quelli che trovano subito tutto ciò di cui hanno bisogno.

Anche lui era allegro e fiducioso, come tutti quelli che partivano. Era comprensibile: stava per accadere qualcosa di grande e di nuovo: si sentiva finalmente intorno una forza che non era quella della Germania, si sentiva materialmente scricchiolare tutto quel nostro mondo maledetto. O almeno, questo sentivano i sani, che, per quanto stanchi e affamati, avevano modo di muoversi; ma è indiscutibile che chi è troppo debole, o nudo, o scalzo, pensa e sente in un altro modo, e ciò che dominava le nostre menti era la sensazione paralizzante di essere totalmente inermi e in mano alla sorte.

Tutti i sani (tranne qualche ben consigliato che all’ultimo istante si spogliò e si cacciò in qualche cuccetta di infermeria) partirono nella notte sul 18 gennaio 1945. Dovevano essere circa ventimila, provenienti da vari campi. Nella quasi totalità, essi scomparvero durante la marcia di evacuazione: Alberto è fra questi.

Qualcuno scriverà forse un giorno la loro storia.

IL CANTO DI ULISSE

Tra le risorse di cui dispone Levi per sopravvivere c’è la letteratura, la risorsa suprema, a cui è dedicato quello che indubbiamente è il vertice del libro, il capitolo intitolato Il canto di Ulisse.

Jean Pikolò

Nel Kommando Chimico Primo fa amicizia con Jean, uno studente alsaziano, che svolge il ruolo di fattorino-scritturale, i cui compiti consistono nel tenere pulite le baracche nel pulire le gamelle (…), nel segnare le ore di lavoro dei detenuti, nel farne rapporto al Kapò. Essendo scelto il più giovane per questo incarico, il prescelto veniva designato con il titolo di “pikolo” ( pikolò con accento alla francese nel caso di Jean, di lingua francese).

Jean è “scaltro”, ma è anche intelligente, solidale, umano ed è riuscito a guadagnarsi la fiducia di Alex, il kapò, che abbiamo conosciuto in occasione dell’esame di chimica.

 Qui Levi ne rifinisce il ritratto: Alex  è “un bestione violento e infido”, ignorante e stupido, “un aguzzino esperto e consumato”.

Primo scelto da Pikolò come aiutante per il trasporto della zuppa

Tra Primo e Jean è nata un’amicizia, che, date le condizioni del lager, non può facilmente essere vissuta, ma un giorno si presenta a loro due l’occasione per stare insieme: Jean sceglie Primo per la quotidiana incombenza del trasporto del rancio a mezzogiorno.

Il tempo è favorevole: è una serena giornata di giugno. I due hanno a disposizione un’ora e non intendono sprecarla.

Parlano delle loro case, delle loro città, Torino, Strasburgo, delle letture, degli studi, delle loro madri. Pikolò, che parla, oltre al francese, che è la sua lingua, anche il tedesco, vorrebbe imparare l’italiano e Primo si dichiara disposto ad accogliere la sua richiesta fin da subito.

TESTO

(Op. cit. pp.119-120)

Appeso con una mano alla scala oscillante, mi indicò:

– Aujourd’hui c’est Primo qui viendra avec moi cercher la soupe.

Fino al giorno prima era stato Stern, il transilvano strasbico; ora questi era caduto in disgrazia per non so che storia di scope rubate in magazzino, e Pikolo era riuscito ad appoggiare la mia candidatura come aiuto nell’«Essenholen», nella corvée quotidiana del rancio.

Si arrampicò fuori, ed io lo seguii, sbattendo le ciglia nello splendore del giorno. Faceva tiepido fuori, il sole sollevava dalla terra grassa un leggero odore di vernice e di catrame che mi ricordava una qualche spiaggia estiva della mia infanzia. Pikolo mi diede una delle due stanghe, e ci incamminammo sotto un chiaro cielo di giugno.

Cominciavo a ringraziarlo, ma mi interruppe, non occorreva. Si vedevano i Carpazi coperti di neve. Respirai l’aria fresca, mi sentivo insolitamente leggero.

– Tu es fou de marcher si vite. On a le temps, tu sais –. Il rancio si ritirava a un chilometro di distanza; bisognava poi ritornare con la marmitta di cinquanta chili infilata nelle stanghe. Era un lavoro abbastanza faticoso, però comportava una gradevole marcia di andata senza carico, e l’occasione sempre desiderabile di avvicinarsi alle cucine.

Rallentammo il passo. Pikolo era esperto, aveva scelto accortamente la  via in modo che avremmo fatto un lungo giro, camminando almeno un’ora, senza destare sospetti. Parlavamo delle nostre case, di Strasburgo e di Torino, delle nostre letture, dei nostri studi. Delle nostre madri: come si somigliano tutte le madri! Anche sua madre lo rimproverava di non saper mai quanto denaro aveva in tasca; anche sua madre si sarebbe stupita se avesse potuto sapere che se l’era cavata, che giorno per giorno se la cavava.

Passò una SS in bicicletta. È Rudi, il Blockführer. Alt, sull’attenti, togliersi il berretto. – Sale brute, celui-là. Ein ganz gemeiner Hund –. Per lui è indifferente parlare francese o tedesco? È indifferente, può pensare in entrambe le lingue. È stato in Liguria un mese, gli piace I’Italia, vorrebbe imparare l’italiano. Io sarei contento di insegnargli l’italiano: non possiamo farlo? Possiamo. Anche subito, una cosa vale l’altra, l’importante è di non perdere tempo, di non sprecare quest’ora.

Passa Limentani, il romano, strascicando i piedi, con una gamella nascosta sotto la giacca. Pikolo sta attento, coglie qualche parola del nostro dialogo e la ripete ridendo: – Zup-pa, cam-po, ac-qua.

Passa Frenkel, la spia. Accelerare il passo, non si sa mai, quello fa il male per il male.

Dante

A Primo viene in mente il canto di Ulisse, il XXVI dell’Inferno. Pensa che Dante possa fare da tramite linguistico tra lui e Jean, ma si rende subito conto della difficoltà dell’impresa.

Capisce che è necessario fornire a Jean informazioni preliminari: chi è Dante, quando è vissuto, che cos’è la Divina Commedia, come è strutturato l’Inferno. Inoltre Primo si trova a dovere affrontare un duplice problema di traduzione: dall’italiano antico di Dante a quello moderno, dall’italiano al francese.

Ma soprattutto la poesia ha bisogno del supporto della memoria, senza il quale viene meno: tradotta in prosa si perde. Primo ha dei vuoti di memoria, cerca di aiutarsi con la rima, ma non ci riesce; è costretto a raccontare la tragica conclusione del viaggio di Ulisse oltre le Colonne d’Ercole in prosa: “un sacrilegio !”, è il suo commento.

Nonostante le difficoltà, Levi riesce a trasmettere a Jean il messaggio di Dante. Nel lager Levi ha un’illuminazione: capisce che il messaggio di Dante riguarda tutti gli uomini in travaglio, quindi anche loro.

TESTO

(Op. cit. pp.120-124)

… Il canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in mente: ma non abbiamo tempo di scegliere, quest’ora già non è più un’ora. Se Jean è intelligente capirà. Capirà: oggi mi sento da tanto.

… Chi è Dante. Che cosa è la Commedia. Quale sensazione curiosa di novità si prova, se si cerca di spiegare in breve che cosa è la Divina Commedia. Come è distribuito l’Inferno, cosa è il contrappasso: Virgilio è la Ragione, Beatrice la Teologia.

Jean è attentissimo, ed io comincio, lento e accurato:

Lo maggior corno della fiamma antica

Cominciò a crollarsi mormorando,

Pur come quella cui vento affatica.

Indi, la cima in qua e là menando

Come fosse la lingua che parlasse

Mise fuori la voce, e disse: Quando …

Qui mi fermo e cerco di tradurre. Disastroso: povero Dante e povero francese! Tuttavia l’esperienza pare prometta bene: Jean ammira la bizzarra similitudine della lingua, e mi suggerisce il termine appropriato per rendere «antica».

E dopo «Quando»? Il nulla.Un buco nella memoria. «Prima che sì Enea la nominasse». Altro buco. Viene a galla qualche frammento non utilizzabile: «… la piéta Del vecchio padre, né ‘l debito amore Che doveva Penelope far lieta…» sarà poi esatto?

… Ma misi me per l’alto mare aperto

Di questo sì, di questo son sicuro, sono in grado di spiegare a Pikolo, di distinguere perché « misi me» non è «je me mis», è molto più forte e più audace, è un vincolo infranto, è scagliare se stessi al di là di una barriera, noi conosciamo bene questo impulso. L’alto mare aperto: Pikolo ha viaggiato per mare e sa cosa vuol dire, è quando l’orizzonte si  chiude su se stesso, libero diritto e semplice, e non c’è ormai che odore di mare: dolci cose ferocemente lontane.

Siamo arrivati al Kraftwerk, dove lavora il Kommando dei posacavi. Ci deve essere l’ingegner Levi. Eccolo, si vede solo la testa fuori dalla trincea. Mi fa un cenno colla mano, è un uomo in gamba, non l’ho mai visto giù di morale, non parla mai di mangiare.

 «Mare aperto». « Mare aperto». So che rima con  «diserto»: «… quella compagna Picciola, dalla qual non fui diserto», ma non rammento più se viene prima o dopo. E anche il viaggio, il temerario viaggio al di là delle colonne d’Ercole, che tristezza, sono costretto a raccontarlo in prosa: un sacrilegio. Non ho salvato che un verso, ma vale la pena di fermarcisi:

… Acciò che l’uom più oltre non si metta

«Si metta»: dovevo venire in Lager per accorgermi che è la stessa espressione di prima, «e misi me». Ma non ne faccio parte a Jean, non sono sicuro che sia una osservazione importante. Quante altre cose ci sarebbero da dire, e il sole è già alto, mezzogiorno è vicino. Ho fretta, una fretta furibonda.

Ecco, attento PiKolo, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca:

Considerate la vostra semenza:

Fatti non foste a viver come bruti,

Ma per seguire virtute e conoscenza.

Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono.

Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo del bene. O forse è qualcosa di più: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle.

Li miei compagni fec’io sì acuti …

… e mi sforzo, ma invano, di spiegare quante cose vuol dire queto «acuti». Qui ancora una lacuna, questa volta irreparabile.  «… .Lo lume era di sotto della luna» o qualcosa di simile; ma prima?… Nessuna idea, «keine Ahnung» come si dice qui. Che Pikolo mi scusi, ho dimenticato almeno quattro terzine.

–  Ça ne fait rien, vas-y tout de même.

Quando mi apparve una montagna, bruna

Per la distanza, e parvemi alta tanto

Che mai veduta non avevo alcuna.

Sì, sì «alta tanto», non «molto alta», proposizione consecutiva. E le montagne, quando si vedono di lontano … le montagne … oh! Pikolo, Pikolo, dì qualcosa, parla, non lasciarmi pensare alle mie montagne, che comparivano nel bruno della sera quando tornavo in treno da Milano a Torino!

Basta, bisogna proseguire, queste sono cose che si pensano ma non si dicono. Pikolo attende e mi guarda.

Darei la zuppa di oggi per saper saldare «non ne avevo alcuna» col finale. Mi sforzo di ricostruire per mezzo delle rime, chiudo gli occhi, mi mordo le dita: ma non serve, il resto è silenzio. Mi danzano per il capo altri versi: «… la terra lagrimosa diede vento …» no, è un’altra cosa. È tardi, è tardi, siamo arrivati alla cucina, bisogna concludere:

Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque,

Alla quarta levar la poppa in suso

E la prora ire in giù, come altrui piacque …

Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo «come altrui piacque», prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del Medioevo, del così umano e necessario e pure inaspettato anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui …

Siamo oramai nella fila per la zuppa, in mezzo alla folla sordida e sbrindellata dei porta-zuppa degli altri Kommandos. I nuovi giunti ci si accalcano alle spalle. – Kraut und Rüben? – Kraut und Rüben –. Si annunzia ufficialmente che oggi la zuppa è di cavoli e rape: – Choux et navets. – Káposzta es répak.

Infin che ‘l mar fu sopra noi rinchiuso. 

L’Ulisse di Levi e quello di Dante

Dante è uno degli autori di riferimento di Primo Levi: tanti sono i rimandi, le citazioni, i parallelismi, le analogie anche inconsapevoli con la Divina Commedia e, certo, l’ Inferno di Dante si presta a fare da modello all’Inferno in cui è precipitato Levi, inferno che non ha nulla da invidiare a quello di Dante.

Quanto ad Ulisse, già l’interpretazione del personaggio dantesco, come abbiamo visto a suo tempo, è problematica: per quale colpa viene punito Ulisse? È stato punito per l’inganno del cavallo, come sembrerebbe, dato che sta nella bolgia dei consiglieri fraudolenti oppure per aver infranto il divieto posto agli uomini di oltrepassare le Colonne d’Ercole?

E come si può concepire come giusta la punizione di un eroe pagano vissuto secoli prima della venuta di Cristo da parte del Dio cristiano? Ulisse parla come fosse un credente. Ecco perché Levi parla di “anacronismo”.

Ma qual è il significato che Levi attribuisce all’episodio dantesco? Perché lo considera illuminante per capire la condizione sua e dei compagni prigionieri del lager?

In una nota, ad un’edizione scolastica del libro, l’autore, nello stabilire un parallelo tra la sorte di Ulisse e il destino dei Prigionieri di Auschwitz  fornisce la seguente spiegazione: “ l’uno e gli altri sono paradossalmente ‘puniti’, Ulisse per aver infranto le barriere della tradizione, i prigionieri perchè hanno osato opporsi a una forza soverchiante, qual era allora l’ordine fascista in Europa” (M. Belpoliti. Op. cit. p.325).

La poesia come fonte di conoscenza

Le pagine di Levi sono ricchissime di significati. Possiamo solo accennare alle preziose osservazioni implicite o esplicite sulla natura della poesia, che è possibile ricavare dal testo.

L’importanza del ritmo ( comincio lento e accurato); l’impossibilità di tradurre la poesia da una lingua all’altra (…cerco di tradurre. Disastroso:povero Dante e povero francese!); l’impossibilità di tradurla in prosa (sono costretto a raccontarlo in prosa. Un sacrilegio.) ; l’importanza della posizione delle parole (“misi me” non è “je me mis”), la funzione della rima per la memoria ( “Mare aperto”. So che rima con “diserto”); l’opera d’arte come fonte inesauribile di significati nel tempo ( “Dovevo venire in lager per accorgermi che è la stessa espressione di prima “e misi me”).

Ma, per riallacciarci al discorso sul lager, quel che più conta è la funzione che l’autore attribuisce alla poesia, una funzione vitale: darei la zuppa di oggi per saper saldare “non ne avevo alcuna” col finale; una funzione sublimante:Per un momento ho dimenticato chi sono e dove sono.

A qualcuno l’episodio è parso troppo letterario per essere vero, ma nelle tante interviste rilasciate negli anni successivi all’esperienza del lager Levi ha dichiarato di aver confrontato i suoi ricordi con quelli di Jean, anche lui sopravvissuto, con riscontri  positivi; ha affermato che in quel lontano giorno avrebbe rinunciato volentieri alla zuppa (immaginiamo il valore della rinuncia in quella situazione!) se avesse avuto la grazia di ricordare il collegamento tra i versi danteschi.

La verità è che Levi ha vissuto la terribile esperienza del lager “un’avventura intellettuale”, come una preziosa occasione per  conoscere la condizione umana, la condizione  – si badi bene- dell’uomo in genere, di tutti gli uomini, non solo dei detenuti. Ecco perché il suo libro può essere illuminante per tutti noi.

In più di un’occasione l’autore ha affermato che il lager è stato la sua università; quelli della prigionia sono stati i mesi per lui più intensi; spesso affermava di aver vissuto quel periodo in technicolor, il resto della vita in bianco e nero.

 E sembra un paradosso, ma evidentemente per lui il desiderio di conoscere e di capire era più forte dell’esperienza del dolore. Ecco perché il suo eroe è l’Ulisse di Dante.